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L’Udinese nel Friul-Mondo

Giro il mondo. Vi lavoro, ma negli anni ho capito come affiancarvi un (bel) po’ di piacere. Non per merito mio, ma delle persone che ho avuto la buona sorte di incrociare sulla mia strada fatta spesso di polvere e sacco in spalla. Girando...

Franco Canciani

Giro il mondo. Vi lavoro, ma negli anni ho capito come affiancarvi un (bel) po’ di piacere. Non per merito mio, ma delle persone che ho avuto la buona sorte di incrociare sulla mia strada fatta spesso di polvere e sacco in spalla.

Girando cinquantatré paesi, ne ho incontrati, di emigranti italiani: di prima, di seconda, di ennesima generazione; settentrionali e meridionali; quelli che hanno fatto fortuna, altri che sopravvivono, la maggior parte di loro con estrema dignità.

Il Furlàn atôr si differenzia per carattere e classe. Sì, classe: anche se molti fra loro si sono dovuti costruire una vita mattone per mattone, letteralmente parlando, la statura morale si erge alta come la CN Tower di Toronto.

Ne frequento, alcuni per lavoro ed altri per passione o antica amicizia; quando li vado a trovare, in Belgio, in Argentina o a Londra o in Canada, mentre la prima domanda deve fugare ogni dubbio sullo stato di salute della mia (spesos anche della loro) famiglia in Italia, la seconda, immancabilmente, verte sull’Udinese Calcio Essepià.

Poco da dire: abbiamo, hanno avuto annate splendor. Ricordo ancora come fosse oggi l’amico Marco Fossaluzza, titolare del ristorante San Daniele di Highbury (dove mi fece conoscere simpaticoni come Wiltord e Wenger, ed autentici gentleman come Guglielmo il Dentone Brady), durante il secondo tempo dell’Udinese-Milan che sancì la prima qualificazione-Champions, mandarmi un messaggio ogni cinque minuti della ripresa, medesimo testo: “and?”, allora? E la sua commozione quando lo chiamai al termine della gara, per fargli sentire l’urlo della folla bianconera...

E gli emigranti che ho conosciuto, al club del Fogolar Furlan di Toronto così come in Argentina, i quali sentono i colori bianchi e neri come un ombelicale vincolo con la picjule Patrie, la loro casa natale da cui se ne andarono non certo per il piacere dell’avventura. Non sono i “cervelli in fuga” che oggi riempiono pagine di giornali virtuali: spesso l’unica fuga che li ha portati a cercare sorte migliore oltreoceano era quella dalla corda che legava alla cintola la carriola, con cui camminavano qualche chilometro all’alba per andare alle bonifiche di Tor di Zuìn, oggi Torviscosa.

Li unisce, da ovest a nord ad est, un solo filo rosso, se oggi chiediamo loro dell’Udinese: un filo che parla di gratitudine, perché è comunque appagante sentirsi rispondere da un indigeno “Friuli? Udine? Ah yes, Udinèsi, Totò DeyNathaley”. Ma oggi anche di delusione, per un’annata iniziata decisamente con aspettative inappagate a causa di una stagione tutto sommato media, poco significativa, mediocre.

Il tifoso-emigrante non vive polemiche, correnti di pensiero su chi debba reggere la presidenza, non ha contaminato la propria udinesità calcistica con i discorsi sulla priorità gestionale di una o dell’altra squadra del gruppo Pozzo. Guardano le partite, si divertono oppure no. Punto. È a persone come loro che mi riferisco quando chiedo, pietisco alla squadra un maggior attaccamento ai colori sociali, oggi che sono stampati su una maglia che assomiglia ad un foglietto di plastica (pardòn, tessuti tecnici) così come tessute in lanetta, come quando molti fra i nostri corregionali seguivano il fumo del Pignarûl e correvano, navigavano a ponente.

Alcuni tifosi (locali), amabilmente conversando, mi accusano; dicono che contano gli uomini, non la maglia. Altrettanto sommessamente mi permetto di dissentire: rispetto, onore a coloro i quali questo hanno dato in una più o meno lunga militanza bianconera, ma la squadra deve rappresentare un Friuli ormai sparso in cinque continenti. E se anche avessero ragione, i veri uomini sanno, lo sanno, che non possono fregare alcun supporter, per usare un termine volutamente internazionale, fingendo attaccamento e dedizione. Chi da cinquant’anni vive là-vie, chi ormai dice “io non tornerò più in Friuli; se volete ancora vedermi sbrigatevi, sennò risparmiatevi anche i fiori sulla tomba, perché quello troverete”; chi ha mangiato pane e basta per donare ai figli un futuro (generalmente brillante), percepisce lontano un miglio chi non dimostra di tenere granché alla maglia che indossa, a loro dire immeritatamente.

Famiglia, lingua, Udinese. Loro, coraggiosi e disperati emigranti, almeno quanto noi meritano uno sforzo ulteriore, suppletivo, intenso per riportare i colori bianconeri friulani a posizioni di rilievo. Loro, quanto noi, non giudicheranno la posizione in classifica, che interessa relativamente: vogliono, vogliamo emozionarci guardando una partita di calcio. Questa stagione è andata, l’anno che verrà la società metta in scena qualcosa di diverso.

E Jean-Yves, Marco, Franco, Galliano, Jorge questo si meritano, quando si mettono davanti a schermi o streaming ad ore inverosimili per seguire la squadra del cuore: poter alzarsi dalla sedia e con orgoglio pensare Fuarce Udin!, e mai più masticare metaforicamente bestemmianti goddamn Udinese...

"Franco Canciani @MondoUdinese

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