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Marco: non un pirata, solo un amico fragile

Il ciclismo è il paradigma della vita: difficile, duro eppure pedala, pedala, pedala e prima o poi la flamme rouge, il triangolo rosso ti avverte che mancano mille metri, mille fottute pedalate o anche meno e poi il cuore smette di battere per un...

Monica Valendino

Il ciclismo è il paradigma della vita: difficile, duro eppure pedala, pedala, pedala e prima o poi la flamme rouge, il triangolo rosso ti avverte che mancano mille metri, mille fottute pedalate o anche meno e poi il cuore smette di battere per un attimo, il respiro rallenta, qualcuno ti attende con un asciugamano ma domani sarà lo stesso, o anche peggio.

È per questo che i campioni più grati, aldilà di classe e bravura, colpiscono per la loro capacità di gettare la Bianchi oltre l’ostacolo, di salire su mulattiere che neanche i bravi animali degli alpini, di far sognare che se uno, con un naso così, vince il Tour magari anch’io avrei potuto...

E allora sì Coppi ma anche Bartali, sì Binda ma anche Costante Girardengo, e Luigi Ganna che nel 1909 trionfa alla prima corsa rosa con una bici pesante venti chili e tappe da cinquecento chilometri.

Lo so, è come un botta e risposta: dico ciclismo, rispondete doping. Sarà.

Sì: Tommy Simpson sbavò gli ultimi rantoli di vita, vittima di caldo e rampemimpossibili, a causa di amfetamine sul Monte Ventoso, franzoso di petrarchiana memoria; sì, Armstrong va in prime time e ammette di essersi fatto di tutto.

Ma nessuno pianse per le confessioni di un texano, tranne la pomposa nomenklatura formata dalla stampa a stelle e strisce, che ribattezzò il Tour de France “Tour de Lance”. Nessuno. In questo sport si battono le mani a tutti, ma gente vincente come Contadòr, Lemond, Indurain riscuote rispetto ma non mai totale ammirazione.

Lungo preambolo per dire che l’amico fragile Marco Pantani, per me, non era dopato. Divenne tossicodipendente dopo che cercarono di ammazzarlo sportivamente un mattino a Madonna di Campiglio, quel giorno di sole in cui il suo piccolo mondo altrettanto fragile fu fermato da quattro gendarmi coi pennacchi e con le armi. Erano passati cinque anni da quel 1994 che lo vide protagonista sulle salite dei giro d’Italia, quando i pantaloni in jeans della Carrera lo videro soccombere in classificagenerale dietro ad Evgenji Berzin, bello ma sterile, ma trionfare sulle vette più significative.

Al tour ’94 arriverà terzo, e solo un automobilista criminale gli tolse la possibilità di concorrere alla vittoria dei grandi giri dell’anno successivo: alla Milano-Torino è in fuga, in picchiata verso la Mole, quando un SUV se ne fotte bellamente dei divieti, gli taglia la strada mentre discende a ottanta chilometri l’ora e gli deflagra una gamba. Ho negli occhi l’immagine di Marco steso a letto, col tutore esterno che gli esce dalla pelle, e alla domanda <come stai?> risponde “con questo impiccio non posso risalire in bici, me l’hanno proibito...”

Sarà il 1998 l’anno-splendor, quando schianta Paolo Tonkov al Giro d’Italia e vince poi il Tour degli scandali, quello delle squadre decimate dalle squalifiche per doping. Dopo quasi vent’anni rifecero le analisi sulle provette di liquido fisiologico prelevate in Francia a Pantani, e sostennero come anche lui sarebbe stato positivo. Come mettere in frigo una banana, ignorarla per tre lustri e sentenziare assaggiandola che “fa schifo”. In mancanza di prove scientifiche è buona norma tacere, altrimenti è becero gossip.

E venne il 1999, un giro ancora dominato: e gli sbirri che prelevano Marco dalla stanza, alle cinque del mattino, per portarlo dai direttori di gara che sentenziano come il suo sangue, troppo denso, sia pericoloso per la salute imponendogli  venti giorni di sospensione, togliendolo dalla classifica. All’epoca mi prendevo un anno sabbatico dalla mia professione, lavoravo alla gestione d’un ristorante e me lo disse al mattino l’amico Lorenzo.

Fu un trauma: senza affermarlo, non essendovi prove, si adombrava solo l’uso di sostanze proibite. Un calcolo delle probabilità mascherato da tutela verso l’atleta, ipocrita e (si disse, si dice ancor oggi) consigliato da chi, con la vittoria di Ivan Gotti, si portò a casa centinaia di milioni di lire. Grazie a scommesse su un ciclista che, di fronte a quel Marco, aveva zero possibilità di vittoria.

Due sere fa una rete privata riproponeva un film per me fondamentale, “Il cacciatore” di Michael Cimino. Quel giorno di Marco Pantani assomiglia terribilmente alla tragica roulette russa in cui nella pellicola perde la vita Christopher Walken / Nick. Unica differenza è che nella rivoltella sportiva di Pantani misero sei colpi e non uno solo.

Riprese, fisicamente, a gareggiare ma la sua testa, la sua psicologia fragile, da quel momento mostrò un encefalogramma piatto: ruppe con la morosa storica Christine, si isolò sempre di più anche dalla famiglia, dalla mamma Tonina che lo crebbe nella cultura della sofferenza e del lavoro in una piadineria ambulante.

E fu quattordici del mese di febbraio, duemilaquattro. Quel giorno le persone che si amano celebrano il proprio sentimento di fronte al santo protettore, Valentino. Alle diciassette, non si capisce ancora come perché in che modo, il cuore grande che spinse un piccolo corpo e una nazione intera su rampe al venti per cento disse a sé stesso che no màs, basta, questo mondo e quell’uomo avevano zero da spartire.

Lo seppi dal TG3. Rimasi in silenzio, totale atroce inutile maledetto silenzio, mentre la mia anima urlava al mondo il proprio dolore, la propria rabbia perché Marco se n’era andato come Faber vaticinava, da solo, perché quando si spengono le telecamere se ne vanno gli “amici” e arrivano quelli che se ne approfittano, del dolore della sofferenza del disagio. E dopo l’arrivo della fine si riaccendono i riflettori, pieni di illazioni, di si dice che, si mostrano al mondo le ultime parole sconclusionate di un trentaquattrenne solo che parlano di rose, di disperazione, come questo fosse un atto dovuto, come se anche il giornalista (giornalista?) non si dovesse sentire in dovere di dire una sola, piccola, sommessa frase: “se n’e andato il migliore; se n’è andato da solo, l’abbiamo ammazzato noi”.

Undici anni. Undici anni passati in cerca di un erede, ché noi poveri mortali, noi che quando affrontiamo lo Zoncolan, per salirlo ci mettiamo un quadriennio olimpico, ne abbiamo bisogno. Vogliamo ma non possiamo, non potremo.

Marco non c’è più. La mamma Tonina ancora lotta, e come lotta!, perché la verità venga a galla. Indagini riaperte, sarà quel che sarà. Lei intimamente sa cosa sia successo, lo sente, ma sta chiedendo verità in un paese dove ve ne sono mille, e nessuna, e mai quella vera, mai quella con l’iniziale maiuscola.

Riderete di me: un quarantaseienne che con uno scricciolo di grimpeur ci fa troppo all’amore, come si dice in Sicilia: chissene. Chissene se pensate che sia morto un drogato, un dopato, che se l’è cercata. Al suo posto ci sarei potuto essere io, che spesso mi sento solo in mezzo alla gente perché solo è il mio cuore, così spesso, nonostante due figlie e la loro innocenza terminata. Solo. Ero meno solo sapendo che sul Mortirolo, l’Alpe d’Huez, il Ventoux, il Col delle Finestre, il Pordoi c’era un omino romagnolo che, per sua ammissione, saliva veloce “per abbreviare la sofferenza”: un eroe umano.

Un eroe umano, non mai un pirata. E a lui dico quello che scrissi ad Auro Bulbarelli il 15 febbraio 2004. Glielo dico ora che Pantani scala le vette angeliche in compagnia dell’Empìreo a due ruote che lo precedette, sfidando Jacques, Charly, Ginettaccio e Fausto. “è salito al cielo un uomo, solo al traguardo anche stavolta. Ciao Marco. Ciao amico fragile”.

"Franco Canciani @MondoUdinese

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