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Calcio a calci. E pugni.

Oggi non si parla d’altro. A 48 ore dall’inizio del campionato, invece che analizzare gli aspetti tecnici della gara che domenica pomeriggio opporrà i bianchineri e i rosastellati torinesi, la possibile (probabile?) ridenominazione...

Franco Canciani

Oggi non si parla d'altro. A 48 ore dall'inizio del campionato, invece che analizzare gli aspetti tecnici della gara che domenica pomeriggio opporrà i bianchineri e i rosastellati torinesi, la possibile (probabile?) ridenominazione dello Stadio Friuli in "Dacia Arena Friuli" ha tenuto banco. Avendo, questo sponsorizzato nuovo battesimo, ben pochi sostenitori.

Cosa io pensi, conta poco. E debbo dire che delle trovate pubblicitarie dell'azienda franco-romena d'auto utilitarie questa non è nemmeno la peggiore (dimenticate le maglie arlecchinesche che hanno testimoniato i disastri di fine campionato, esclusa la gara col Milan?).

Cosa io pensi, conta nulla. Trovo però incredibilmente intempestivo l'intervento della società: in un momento ove motti come "la passione è la nostra forza", "il Friuli sulle nostre maglie" dovrebbero coalizzare i tifosi intorno ad un pensiero identitario, unitario, autòctono (mediante apposita sottoscrizione dell'abbonamento), cancellare con un colpo di Sandero un nome che riporta al terremoto, alle sofferenze, ad un popolo stretto attorno ad un cumulo di macerie che sarebbero presto ridiventate abitazioni e chiese e palazzi appare un suicidio mediatico senza precedenti.

Sarebbe bastato proporre come nuovo (?) nome una cosa neutra, tipo "Nuovo Stadio Friuli - Dacia Arena". Sono certo della buona fede assoluta della società, ma qualora la denominazione annunciata diventasse realtà, beh ciò mi costringerebbe a chiamare Marchesi del Grillo  gli appartenenti al potentato bianconero. Per chi non avesse visto l'immortale capolavoro di Monicelli con Sordi, nel film in una scena il Marchese è arrestato dal Bargello, napoleonico e marchigiano, assieme ad altri birbaccioni causa una rissa in osteria; egli viene però liberato da un superiore del povero funzionario, ed all'atto di salire in carrozza col fido Ricciotto, (citando G.G. Belli) afferma "mi spiace... ma io so' io, e voi nun siete un c****".

Sembra che, oltre alla società, anche lo stadio sia divenuto non una concessione, ma una pertinenza dei paròns. Fosse anche così, perché cedere quarant'anni di storia per un mezzo milioncino di euro? Equivalente, per dire, all'1,5% dell'introito dai diritti televisivi, o all'1,25% dell'utile derivante dalla campagna 2015 di compravendite estive? Sono schiavo dei beaux géstes, esiste una lodevolissima Onlus biancanera, se proprio si voleva aiutare il pauperrimo comune capoluogo di provincia bianco e nero nel reperire fondi altrimenti insormontabilmente assenti onde restaurare i campetti di periferia delle piccole formazioni locali, bastava incaricare altrettanto locali imprese di farlo, con l'aiuto dei volontari che fanno grandissime le piccolissime squadre. Ciò avrebbe portato visibilità, onore, lacrime ed abbonamenti; si sarebbe potuto scrivere lo stesso sulle pareti degli spogliatoi "dono di Udinese calcio e Dacia". Invece si sta scegliendo la formula più zarrogante, e perdonatemi questo neologismo della Milano da rappare. Ciò non va bene, qui né da alcuna altra parte, a prescindere dal fatto che a me, di cosa si incida sulla porta dello stadio, importa zero.

Nel recente passato ho scritto per queste frequenze un pezzo intitolato "lasciatemi i miei sogni". Io non voglio cambiare il calcio-business, non sono un podomissionario ma un podosfanarchico; continui, il Man City, a spendere milioni per giocatori che ai campioni reggerebbero gli scarpini; se De Bruyn vale 70 milioni, se Soriano Romagnoli e Bertolacci ne costano assieme 75, allora consideriamo dei cretini i dirigenti del Flamengo che per Zico presero l'equivalente di 11 milioni di oggi. Ed io, in queste storie, non ci voglio entrare. Ne parliamo col distacco della superiorità, del disprezzo, della consapevolezza che non apparteniamo a questo nuovo corso fatto di soldi sprecati, di sponsor miliardari, di dirigenti mediocri e giocatori altrettanto poco performanti. E il Friuli, lo chiamino come gli pare: per me sarà sempre Lo Stadio. Ma se cercano il contatto e l'affetto dei tifosi hanno imboccato la strada in senso vietato. Ricordo a Giampaolo, Gino, Collavino, Rigotto, a Ferrigno, alla Dacia che questo popolo di freddi e distaccati friulani finanziò, con trentamila lire a testa, lo stipendio di Zico nel 1984-85. Li avessero chiesti a loro, quei cinquecentomila euro, a due tre cinque euro a testa ne avrebbero racimolati il doppio.

Invece penso che siano altre le meccaniche che oggi regolano questo mondo. Meccaniche aliene, almeno a me, per le quali le parabole satellitari contano più dei cori dei supporter. Ne prendo atto, amici tifosi miei biacca e carbone: per me si prendano il nome, fanno bene. Oggi mia mamma mi ha ridato, cavato da un cassone, un mazzo di foto scattate da mio fratello allo stadio, negli anni novanta: Mattei che sta battendo un corner; il rigore di Schillaci in nerazzurro contro Giuliani; Rossitto ragazzino coi capelli corti... Per me si prendano il nome. Io mi tengo le foto, i ricordi, il nome del mio Stadio. Lo Stadio che mi ha rapìto la fanciullezza. Lo stadio un cui nel settembre 1976 sentii una scossa di terremoto, durante Udinese-Seregno. Lo Stadio. Friuli. Di Udine.

Franco Canciani @MondoUdinese

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