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Confessioni di un malandrino del pallone (Di F. Canciani)

Quando non si gioca sul campo, quando sì ci sarebbe la under21, la Copa America ma sono solo magri riempitivi per chi tutto sommato ama legare la palla a specifici e ben delimitati àmbiti agonistici, avanza tempo per pensare, pensarci, al calcio...

Franco Canciani

Quando non si gioca sul campo, quando sì ci sarebbe la under21, la Copa America ma sono solo magri riempitivi per chi tutto sommato ama legare la palla a specifici e ben delimitati àmbiti agonistici, avanza tempo per pensare, pensarci, al calcio che si ricorda ed a quello che ci piacerebbe rivivere.

Specie se poi si vola a diecimila metri di quota, tre fusi orari da Hoboken a San Francisco; specie se la vicina di posto, peraltro una matura ma bella guagliona locale, chiede due volte l’ora di farla passare per andare al bagno, la sua incontinenza essendo però un tacito e non consensuale vizio che la fa profumare come una tabbacchiera, allora mentre attendiamo di lasciarla entrare per l’ennesima volta ripensiamo a chi siamo. Calcisticamente parlando.

Sono un malandrino, un senza-dea (Eupalla perdonami), che può delirare per un centrocampista modestamente impostato e dimenticarsi dei guai da questi procurati; potenzialmente batterei impegnato la man da morra al bar, per non dover litigare con l’amico più caro se Simone Pepe sarebbe rientro gradito (per me sì) oppure no.

Il calcio, la propria squadra del cuore, argomenti che ci impegnerebbero in ore di discussione sterile e inutile, anzi indispensabile, con il risultato valente di veder vuotare il litro (reale o metaforico) di fronte a noi. Il calcio è lo sguardo compassionevole e mai complice delle nostre compagne, cui abbiamo cercato mille volte di spiegare la regola del fuorigioco senza esito, quelle che ci ascoltano benevolmente mentre descriviamo minuziosamente una veronica, un tunnel, una rovesciata del campione del cuore.

Il calcio è la maglia strappata di Arturo, lo slalom di Manuel, quello di Paolo ed il suo gesto a toccarsi l’ìncavo del gomito dopo aver segnato a Ciucci del Lecce e soprattutto aver sin troppo sopportato le intemerate della Tribuna, sezione Nord.

Ecco perché trovo difficile parlare in termini entusiastici dell’Udinese appena trascorsa, e (sinora almeno) di quella a venire. Ecco perché un vecchio cuore nostalgico troverebbe giovamento dal rientro di pretoriani come Simone e Quaglia, quel della volée a Napoli, quello che segna alla Juventus del Zac ed esulta irrefrenabile scivolando in ginocchio verso la bandierina. Non è causa mia, amici miei bianchi e neri, se (l’ho detto mesi, anni fa, non tacciatemi di ingratitudine) Di Natale Antonio, professione goleador, non tocca le corde più nascoste del mio vecchio cardiomuscolo, stanco di calcio. Onestamente nel calcio d’oggi Totò è l’unico, uno dei pochi pedatòri italiani a poter permettersi di strappare applausi con giocate ad alto tasso di spettacolarità, uno di quelli (sempre meno) che sfida la forza della gravità di questo pesante calcio muscolare, pressing e diagonale: ma sono un malandrino, provo spesso più affetto verso seconde linee che campioni. Un libro su Zico non l’avrei mai scritto: sì, okay, non sono tecnicamente attrezzato per cotanta impresa, ma anche per fortuna lo fossi mi dedicherei ad altri, ai dimenticati, forse dimenticabili, calciatori che all’Udinese hanno dato quel che potevano: ardore, gioventù, spesso parte della propria salute, intese tibie, péroni e ginocchia.

E mi confesso, Vi confesso che sono podosfero-peccatore: mi mancano i punti di riferimento, in campo e fuori. E pensandoci bene a tale proposito un Colantuono potrebbe farmi bene (ma tolga per cortesia il bus dalla linea di porta, basterà Karnezis). Mi mancano quei giocatori che se ne vanno, sulla musica di Vangelis (per noi: per loro piuttosto “Money” dei Pink Floyd), poi si girano e fanno un cenno di saluto, e con gli occhi dicono che, sì, sono contenti ma un cicinìn gli dispiace di lasciare quest’angolo d’Est italiano. Intimamente sperando di ritornare, prima o poi, magari solo da amici. Ad oggi, chi? Angella, confinato nella perfida Albione. Coda, sacrificato pur di permettere al prode colombiano di esaudire i suoi sogni da bambino, quando già sueñava la Samp-e-Ddoria. Ben poco d’altro.

Professionisti fino in fondo, bonariamente mercenari. Non credo i Widmer, i Guilherme, i Nico Lòpez per tacer dei Cuadrado abbiamo versato o verseranno una lacrima quando si deciderà la prossima destinazione finale.

Ma il pallone ruota, sempre e comunque, e vi si deve adattare anche un uomo pieno di vertici e spigoli come me, eicosaedrico piccolo cantore di cose bianche e nere. E attendo una buona notizia, da questo foro boario estivo e consequenzialmente dal prossimo campionato; una sciocchezza: capace, io, di spender duecento battute ad esaltare il poco o nulla che da due anni si vede in giro.

Un pazzo malandrino.

Lo credo, sì. Dev’essere così: la Direzione di questo valente angolo sportivo mi concede la grazia d’uno spazio avendomi preso dentro, che so, in quota-pazzo o visionario. Nella quota riservata a chi si è stancato di consumarsi per farsi dar retta, ma sempre grato ai tani o pochi, ai mille dieci cento uno solo che legga le mie righe fino in fondo.

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