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La religione nel calcio (e nell’Udinese): oppio dei popoli

Il tifo è una fede, non è solo un modo di dire. Del resto se anche Papa Francesco non nasconde ed, anzi, evidenzia, la sua simpatia per il San Lorenzo, vuol dire che quando si dice che il calcio è l’oppio dei popoli non ci sbaglia. Come...

Monica Valendino

Il tifo è una fede, non è solo un modo di dire. Del resto se anche Papa Francesco non nasconde ed, anzi, evidenzia, la sua simpatia per il San Lorenzo, vuol dire che quando si dice che il calcio è l'oppio dei popoli non ci sbaglia. Come la fede. 

La religione, il calcio sono vere e proprie armi di distrazione di massa, sono il mezzo col quale i governi tengono a bada la gente. Mondiali, campionati nazionali, ma anche piccole partite tra amici sono una fuga: 'scappare a volte è l'unico modo per rimanere vivi e continuare a sognare' diceva Henri Laborit, grande biologo che ha ispirato Gabriele Salvatores per 'Mediterraneo'. Dove la partita di calcio non poteva mancare.

E come in tutte le religioni c'è chi vive la cosa in maniera 'laica', chi passionale chi addirittura fanatica. Ultras come talebani del calcio? Potrebbe essere, basti vedere che in molte squadre i simboli delle squadre di calcio sono anche gli stessi simboli di lotta fuori. Con Dio che aiuti dall'alto la causa.

Ovviamente anche i giocatori non si esimono e ostentano la loro fede. Da chi rispetta il ramadan nonostante  il calcio professionistico imponga diete personalizzate e accurate, fino a chi ostenta simboli nello spogliatoio. In quello dell'Udinese santi e santini non mancano in alcuni armadietti.

Felipe, per dire, è tutt'ora uno dei cosiddetti 'atleti di Dio', Gaetano D'Agostino dopo le vicissitudini di mercato si è avvicinato ancora di più al cristianesimo, affermando che l'ha aiutato moltissimo. Religioso è Floro Flores, con tatuaggi a provarlo. Oggi di Di Natale tutti sanno a chi è votato, Badu indica sempre il cielo prima di entrare in campo con l'indice e gli occhi rivolti in alto. Fernandes e il segno della croce prima di toccare il campo con un dito. Con lui quasi tutti i compagni.

Il calcio, in fondo, è quasi una diocesi.  Nel calcio come nella religione - prendiamo la religione cattolica come punto di riferimento - esistono gli 11 apostoli (Giuda qualche volta c'è e si sa come finisce) che sono gli 11 giocatori, inviati per rappresentare i propri seguaci; esiste inoltre un papa, presidente della Fifa, dotato di poteri quasi infallibili. Si presenta circondato da cardinali poi c’è la casta sacerdotale degli allenatori, questi portatori di speciale potere sacramentale di ammettere, confermare o togliere i giocatori. Dopo emergono i diaconi che formano il corpo dei giudici, maestri-teologi dell’ortodossia, vale a dire, delle regole del gioco, il lavoro concreto della conduzione della partita. Infine vengono (i chierichetti, che aiutano i diaconi.

Stramaccioni come un parroco? Forse per Guidolin la battuta veniva spontanea, oggi Strama appare più come un 'padre' o forse come un 'fratello', comunque termini usati nel lessico religioso. I diaconi come Carnevale, Deki, Giaretta tutti atti a portare avanti la parola. Tattica, ma anche educativa.

Perché come la religione il calcio dovrebbe educare. Condizionale d'obbligo, perché se lo Ior di Marcinkus è il simbolo di una religione divenuta centro dei mercanti nel tempio, ecco che il calcio di oggi è fatto gran part di mercanti e né diaconi né parroci possono opporsi.

Gesù aveva ammonito: via costoro dal tempio. Invece il mono sembra prima crearli poi demonizzarli, ma nessuno ha il coraggio di cambiare.

Per molti il calcio è diventato una cosmovisione, una forma di interpretare il mondo di dare senso

alla vita. Alcuni sono depressi quando la loro squadra perde e euforici quando vince.

Attenzione a non perdere di vista la realtà: perché il calcio, come per la religione non esiste regola scientifica che lo spieghi.

E i simboli forse dovrebbero essere difesi senza metafore: l'epopea dello Spartak Mosca che si diversificava da tutte le altre squadre comuniste anche per nome, è finita da tempo. Oggi se dovesse mai servire lottare per un ideale sarebbe bene riempire le piazze con il desiderio che dovrebbe spingere ance i tifosi: nessuno deve temere il potere dei palazzi, sono loro che devono temere il potere dei popoli.

E i tifosi non dovrebbero temere il potere economico, è il potere economico che dovrebbe temere i tifosi. Avere una fede non basta per cambiare le cose, per riavere un calcio popolare come lo è la religione, per tutti e senza distinzioni di razza, sesso, ideologie, servirebbe prima abbattere quelle barriere invisibili che continuano a far sì che a qualcuno la religione nel calcio faccia comodo.

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