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La storia siamo noi, da lì si riparte o ci si ferma

Molti ci accusano di vivere di troppe nostalgie. Che altro non sono che ricordi, frutto inesorabile di un’età che avanza. C’è chi sostiene che sia sintomo di saggezza, altri asseriscono che sia una debolezza umana, altri ancora vorrebbero...

Monica Valendino

Molti ci accusano di vivere di troppe nostalgie. Che altro non sono che ricordi, frutto inesorabile di un’età che avanza. C’è chi sostiene che sia sintomo di saggezza, altri asseriscono che sia una debolezza umana, altri ancora vorrebbero che non esistesse rimanendo sempre eterni Peter Pan.

Non sappiamo, onestamente, chi abbia ragione. Sappiamo solo che i ricordi sono storia, e la storia non va mai dimenticata.

La storia è fatta di particolari che si intersecano tra loro, tra calcio, vita di tutti i giorni, politica, città e gente che cambia. I ricordi, la storia sono le fondamenta per il futuro.

Per questo molti guardano all’Udinese di Zico come se fosse l’unica, generazioni ancora più vecchie pensano che i bianconeri di Bigogno siano stati i migliori: per la qualità della squadra, per il risultato storico (secondo posto mai eguagliato), perché Udine viveva tra il vecchio cinema Alpi in Piazzale Osoppo e una spuma da gustare parlando di tutto, dalle gesta di Bettini fino a De Gasperi.

I più giovani ricorderanno meglio Zac, ma qui il passato recente tende a confondersi con un presente luminoso.

Il senso di tutto è però che certe cose non vanno gettate via se si vuole costruire davvero un futuro migliore. Molti delegano agli altri il progetto di creare il nuovo che avanza, invece è sbagliato. Nella politica, in tutto, è nelle mani della gente comune riuscire a far sì che le cose vadano come vuole la maggioranza. E’ il nervo della democrazia, è la speranza in persone che nei ricordi portino esperienza e voglia di migliorare.

Non si faccia l’errore di buttare via tutto, ma nemmeno di dimenticare nel nome di un non ben chiaro neofuturismo. Marinetti sbagliò clamorosamente nel scambiare questa corrente col progressismo, ben altra cosa.

Se alcune sono irrecuperabili (la Udine stile liberty esposta in una sala del ‘Moma’ di New York è inesorabilmente persa proprio per quella ricerca di un futuro diverso), occorre recuperare quel che si può. Come accattoni che si gettano tra i rifiuti che troppe volte vengono gettati troppo frettolosamente.

La Serie A a 16 squadre, per esempio, è sinonimo di spettacolo, di dare la possibilità a tutti di rinforzarsi nelle loro possibilità, di livellamento e di campionati ad alta tensione fino alla fine. Certo a Pozzo e ad altri presidenti non piace (Albertini non è gradito solo perché la propone a 18, figuriamoci), forse perché averne venti di cui almeno tre derelitte, più le neopromosse inesorabilmente destinate a non comare il gap di categoria, è un’assicurazione sulla vita.

Le Tv onnipresenti non ci piacciono: va bene avere comodità, va bene che il calcio entri nelle stanze di tutti noi tra ‘spaghetti aglio, olio e peperoncino, birbone gelato e rutto libero’, ma non va bene che ci propongano questo sport ogni giorno. L’inflazione non è mai buona cosa, figurarsi quando si devono sopportare ‘monday night’ tra Sassuolo e Chievo, con tutto il rispetto per queste due simpatiche squadre. Ridateci una Rai ben fatta, con giornalismo ironico, ma allo stesso tempo preparato, con i tifosi assiepati dietro il cronista a salutare genitori e amici, attendendo il collegamento anche tre ore. Ridateci i giocatori liberi di parlare, dicendo le cose che pensano e non quelle che i club gli fanno dire. Ridateci un calcio a misura di tv, ma non dove anche qui serve pagare caro una passione. Se gli stadi sono vuoti non occorre Einstein per comprendere che chi paga un abbonamento alla tv satellitare, poi sceglie se sia o meno il caso di fare l’abbonamento allo stadio.

Ridateci i campioni: che i club spendano meno per rose di 50 giocatori, che ci sia un limite ben definito (trenta, viste le coppe sono più che sufficienti), ma che abbiano obbligatoriamente anche almeno un 20 per cento di giocatori nati dal vivaio. Serve creare di nuovo un legame con le squadre, oggi ci si ricorda l’Inter dello scudetto ’89, ma si fatica a ricordare le formazioni bianconere del 2003. Serve creare di nuovo una passione reciproca, dove la gente non è spettatrice, ma attrice in prima persona.

Purtroppo la modernizzazione di questo sport ha voluto distaccare fino all’estremo la gente dai suoi beniamini: le curve sempre più vuote e svuotate della loro anima ne sono l’esempio, e che manchi un ricambio generazionale è la conferma che i ragazzi preferiscono la tv (o altro).

Ridateci i calciatori che si guadagnano il contratto sul campo. Cattaneo aveva firmato per due anni, ma il terzo se l’è dovuto sudare sul campo con gente come Zico come compagno di squadra. Oggi cinque anni sono la norma, per poi scoprire che tanti finiscono solo alla voce plusvalenze.

Avere contratti brevi serve a far amare di più la maglia, ma soprattutto a dare ancora di più in campo.

Dateci, insomma, un calcio a misura d’uomo. E non parlateci troppo di tecnologia. Non è questa che risolverà i problemi, anzi ne crederà: non dimentichiamo che il calcio è lo sport più ‘umano’ che esista, con i suoi pregi e i suoi difetti, con vizi e virtù. Per questo lo amiamo. O lo amavamo, questo è il dilemma.

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