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La vita e il calcio (Di F.Canciani)

Domenica nel New England. A Boston, esattamente nel North End (chiamata familiarmente Little Italy) esiste una parrocchia con tre chiese, una delle quali (Saint Leonards) esercita verso chi Vi scrive un effetto magnetico. No: non sono praticante...

Franco Canciani

Domenica nel New England. A Boston, esattamente nel North End (chiamata familiarmente Little Italy) esiste una parrocchia con tre chiese, una delle quali (Saint Leonards) esercita verso chi Vi scrive un effetto magnetico.

No: non sono praticante cattolico, ma mi sento cristiano perché questa, per le mie corde, è la religiosita che “mi” compie. Seguo raramente la messa, anche se il mio parroco (di cui taccio il nome ma che familiarmente, sfidandone i rimproveri, chiamo Don Matteo o peggio Don Joe) meriterebbe ben più attenzione. Qui l’officiante in italiano è un (credo) prete balcanico, occhi azzurri e mento volitivo, che parla, lui sì!, come Terence Hill... La predica è semplice più che esegetica, traduce in italiano corrente le parole, a suo tempo volte dal greco, di Marco. Ma una cosa poi colpisce il povero cantore di cose bianchenere in trasferta oltreoceano.

Dice, Terence, che l’uomo non è condannato a soffrire: l’uomo è “condannato” a vivere. E ciò non necessariamente implica la sofferenza. Come il personaggio buono e spesso taumaturgico dello sceneggiato RAI, questo religioso ha ragione da vendere.

Molti fra noi confondono la croce che tutti, chi più grande chi invero lieve, siamo tenuti a portare come fosse una condanna a morte, una volontà maligna e diabolica, un motivo per poter esercitare urbi et orbi la tutto sommato facile pratica del lamento, della critica generalizzata, insomma di quello che chiamo il pensiero negativo.

Mi riferisco ad esempio alle reti sociali, uno strumento che dovrebbe unire persone con, che so, difficoltà nel relazionarsi dal vivo oppure semplicemente amici, veri o virtuali, che vivono a due anni luce di distanza; invece, accanto a foto di antipasti e piatti da tremila calorie, vedo spesso intemerate su quanto faccia schifo il governo, la società, la squadra del cuore e la sua proprietà.

È questo il pensiero negativo, calcisticamente alimentato anche dall’immobilismo dell’Udinese calcioessepià, la cui strategia (ma anche l’anno passato!) trovo improvvida.

Dicotomicamente si dividono quindi due schiere, assorgenti a difesa della propria idea, contrastante da quella a loro opposta, ma accomunate dall’onesto grondare bianconero orgoglio. Una dice che “I Pozzo devono spendere invece che spingere solo il Uòtford”. L’altra ribatte il mantra dei vent’anni in A, della proprietà che sa quel che fa, di AmorosoBierhoffSànchez eccetera.

Ed in mezzo ci sto io, ché i social network non li so usare e non appartengo a quella categoria di persone che decidono di dover avere per forza un’opinione su tutto. Non è critica ma autocritica.

Alle due schiere dico che si debbono trovare al centro del campo. Non è vero che da parte dei Pozzo ci sia disimpegno bianconero e maggiore foga londinese, è solo che fra prima e seconda lega britanna esiste una differenza spaventosa, in termini di qualità ed impegno necessario: i proprietari avranno deciso, secondo me giustamente, di affrontare l’avventura in maniera seria, per accaparrarsi un posto al sole (metaforico) lungo qualche anno di più che una botta e via. A chi però invoca la savia gestione dei Pozzo come panacèa da tutti i mali, rispondo che forse i bilanci andrebbero a carte quaranta qualora acquisissero uno fra Pogba, Messi, CR7 e Bale. Tutti gli altri sarebbero cari, poco più. Non è una questione di bilancio ma di prospettive, di volontà di investire la cifra che servirebbe per tre quasi-top-player, o cinque-sei giocatori fatti e finiti per acquistarne invece cento, fra cui scegliere il piccolo manìpolo di quelli che frutteranno la sospirata plusvalenza.

Qui in America lo chiamano leaking: far gocciolare delle notizie quasi carpìte dal buco della serratura, un Lino Banfi che ascolta Borlotti trattare Platinì da dietro una porta; qualcuno ci crede, ma alla fine salta fuori che l’obiettivo era tutt’altro. All’Udinese ultimamente sono stati accomunati tanti giocatori di cui si può a buon diritto vaticinare quasi per certo altro destino.

E dove troverei quindi la corrispondenza, reale o mancata, fra l’Udinese attuale e la predica del simpatico reverendo bostoniano? Beh, nel fatto che il calcio, così come la vita ma senza altrettanta serietà, impone croci da portare e gioie da condividere. Se la S.p.A. fosse una società di capitali pura e semplice il comportamento della dirigenza sarebbe impeccabile... Siccome invece parliamo di sport, etimologia che rimanda alle gite romane fuori dalle porte, delle mura della città, allora chiedere che al centro del paese di Rizzi, a fianco (casualmente) alla chiesa ed alle quattro-osterie-quattro si rimetta il giuoco e il divertimento pare necessario. E certe volte l’acquisizione di un giocatore dal nome finalmente non impronunciabile sarebbe opportuno. Leggo di un “tentativo per Quagliarella ma il Torino resiste”. Sciocchezze: quando Pozzo volesse, spedirebbe Giaretta con la valigetta piena di speranze, sogni, giovani follìe e..., e l’affare si farebbe in un minuto. Quindi il Toro resiste solo perché non si addiviene a più copiose contropartite. Vi sento, vi sento: “non hai fiducia, loro sanno quel che fanno”. Lo so: ma da anarchico ed edonista del calcio, schiavo della finta di corpo dell’ala (che non esiste più), mi farebbe piacere spendere duecento battute per elogiare la generosa cristianità societaria nel donare gioie ai supporter. Bianconeri. Delle altre due squadre non mi occupo, ci sarà un omologo cantore delle cose giallonere lassù, perfido albionico algido ed inflessibile, a differenza di me.

Come dite? Mi ripeto? Queste cose le ho già dette? Sarà, anzi sicuramente è così. Ma anche il comportamento dell’Udinese nel calciomercato è cosa vista e rivista. E, lasciatemi dire, in certi casi repetita non iuvant.

France Canciani @MondoUdinese

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