rubriche

Udinese, Napoli e la (deca)danza nel calcio

Non sono un cuorcontento, l’avrete capito: piuttosto inclìne alla melancolìa, come in questo periodo che ormai volge al due di novembre. Giorni di pioggia; se esce il sole generosamente tiepido di ottobre, comunque rimanda a giorni che si...

Franco Canciani

Non sono un cuorcontento, l’avrete capito: piuttosto inclìne alla melancolìa, come in questo periodo che ormai volge al due di novembre. Giorni di pioggia; se esce il sole generosamente tiepido di ottobre, comunque rimanda a giorni che si accorciano inesorabilmente.

Sono settimane in cui cerco ristoro e riparo nelle mie piccole grandi passioni. Il lavoro (io che con fortuna ce l’ho), la lettura, la musica. Il calcio? Mah.

Detesto ripetermi, e quindi non lo farò. Anzi, non lo farei, se una domenica, se una sola maledettissima domenica biancanera mi ispirasse una parola diversa dal solito. Invece sono lì a lottare per un posto in sesta fila, come una Manor qualsiasi, abili solo a farsi doppiare dalle prime della fila. Una motoGP privata sverniciata dalle squadre ufficiali, una squadra di promozione quando di fronte non c’è un Eziolino Capuano a motivare gli avversari a colpi di insulto.

La tifosissima dipendenza totale biancanera tende a coprire, per la verità sempre di meno, la distanza tecnica, tattica, agonistica che divide l’Udinese dalle prime della classe. Ma anche dalle seconde, e dalle terze. E dietro l’entusiasmo delle debuttanti preme, spremendo dalla truppa di Colantuono quella paura che sprizza da molti loro pori.

I bianchineri stanno adottando la politica dei piccoli passi, sono in moderata striscia imbattuta (tre partite), ma nel calcio dei tre punti ciò potrebbe non bastare. Non mi accodo alle sirene dei “trentasette punti irraggiungibili”, ma gli otto raggranellati sinora non sono certo bottino frutto di gioco scintillante né di calendario eccessivamente ostico od inarrivabili avversari.

Tacerei delle poche soddisfazioni maturate dalle formazioni che hanno espugnato il Sandero: tre punti ha preso l’Empoli, quattro il Palermo, poco di più il Milan di uno sparito (lo so, sta male) Balotelli ed un Mihajlovic in confusione. Inciso: per guidare una squadra del genere non bastano i saltelli anti-nerazzurri e le frasi bellicose e motivatrici di Che Guevara e compagnia cantante. Bisogna esservi preparati e negli ultimi quattro anni solo uno si è dimostrato tale. Osò andare a dire al dottor Silvio Berlusconi che bartalianamente gli era tutto da rifare, fu cacciato a furor di spogliatoio, sorrise pensando ai diecimila euro giornalieri che la mattina gli avrebbero recato in casa assieme al latte ed ai giornali, ed ancor oggi attende la sua occasione. Forse si abbasserà a guidare la devastata Oranje già di Danny Blind: al Milan tirerebbero un sospiro di sollievo. Insomma, pareggiano a Torino coi granata e quasi fanno i caroselli.

Ed io anche oggi chiedo scusa. Non ai tifosi bianconeri, cui non ho riservato particolari delusioni, credo. Ma ad un signore nato a Napoli nel 1959.

Vent’anni di panchine, qualche successo diversi esoneri, tutti nelle serie inferiori, da cui impara il duro mestiere di allenatore. Parla poco, appare meno, occhiali da geometra del catasto e tuta d’ordinanza, porta in serie A l’Empoli e debutta contro l’Udinese nel vecchio Friuli in via di ristrutturazione. Perde 0-2, lo etichetto frettolosamente come un signore da serie cadetta in vacanza al sole della massima categoria, non mi accorgo di come faccia giocare i suoi ma non mi stupisco, di calcio capisco poco.

Salva i toscani, li saluta e aspetta una chiamata. De Laurentis (l’altra “I” mai!) chiede a Sinisa, in uscita dalla Samp-e-Doria ma costui sogna in rosso e nero, più via Montenapoleone che Bagnoli, Campi Flegrei. AdL ha l’intuizione di riportare a casa il mister partenopeo. Inizio duro, molti scettici ne pregustano un esonero tombale ma lui non si scoraggia: riporta in testa al gruppo Marekiaro Hamsìk, gioca a tre punte senza paura, esalta “’a papà” Insigne e l’apoteòsi è la quaterna secca sulla ruota di Milan, ove demolisce proprio il Mihajlovic non tanto celestianamente autor d’un gran rifiuto.

Maurizio Sarri, che parla poco e quando Maradona lo riempie di ingiurie si toglie gli occhiali, sorride e afferma che esser citato da un mito come Diego Armando è un onore; non spreca parole, né occasioni e si issa vicino al vertice della classifica, della quale batte la capolista dopo una gara a tratti bellissima.

Cosa c’entra il Napoli, squadra per altro a me neanche tanto indifferente? Beh, serve a ricordare.

A ricordare che Je suis Charlie, ma davvero e senza condivisioni di moda sulle reti sociali (a proposito, tutti spariti i difensori della libertà d’opinione riciclati con la morale censoria che condanna il sindaco romano di turno senza neanche sapere cosa sia successo) almeno quanto je suis partenopeo se c’è chi scarabocchia la propria non-appartenenza napoletana in giro per il mio paese, quasi esser nati a Portici fosse un’onta da smacchiare.

A ricordare, ancor di più, che il calcio è divertimento e vedendo giocare i celesti napoletani lo si percepisce anche senza grandi basi tecniche. Lo so: il tasso tecnico del Napoli è decisamente superiore alla media, ma non lo era quello dell’Empoli. Eppure questi sono i risultati se si accondiscende alle caratteristiche dei pedatòri a disposizione.

A ricordare, non solo a me, che fare bene l’allenatore non è solo né tanto issare teloni a celare le proprie creazioni nei campi d’allenamento, se in campo la domenica i risultati sono questi. I numeri si lasciano scrivere, ma grida vendetta schierare a Verona sei centrocampisti in cerca d’autore ma privi (oggi) di personalità, pugna e talento. Qualità che probabilmente emergerebbero se si possedesse un benché minimo coraggio di schierarla con voglia propositiva e non attendendo un undici in giallo che pareva diretto dal celebre regista George Romero. O da John Landis se di punta giocasse Michael Jackson. Citazione per chi la sa cogliere, così per non offendere nessuno.

Si guardino le ultime gare di Sarri. Che non è Guardiola, né Mourinho ma un assennato professionista che conosce i propri limiti ma innalza quelli dei propri giocatori. Lo stadio San Paolo è un fatiscente catino in cui giocano dei prestipedatori; la Sandero Arena un gioiello ipertecnologico in cui prevalgono delusione e sbadigli. Evito di dire altro. Sono già malinconico: ma laggiù si danza, qui si sta sprofondando nella decadanza.

Franco Canciani @MondoUdinese

 

Potresti esserti perso