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La solitudine dei numeri 10 (Di F. Canciani)

Non esistono, nel mondo dello sport, molte cose più suggestive della maglietta col “dieci” sulle spalle. Evoca i sogni di un bambino, che prende a calci un pallone sperando di non finire come nella canzone del Liga,”che natura non ti ha...

Monica Valendino

Non esistono, nel mondo dello sport, molte cose più suggestive della maglietta col “dieci” sulle spalle. Evoca i sogni di un bambino, che prende a calci un pallone sperando di non finire come nella canzone del Liga,”che natura non ti ha dato né lo spunto della punta, né del dieci... che peccato”. Anzi, l’infante chiude gli occhi e sogna di scartarli tutti, compreso il portiere per deporre la sfera colorata in fondo al sacco. Ovazione dei cinquantamila presenti, esultanza personalizzata, immortalità sportiva assicurata.

Fortunata, la mia generazione: ne abbiamo visti, noi, di numeri dieci veri, quelli che negli anni ottanta godevano di rispetto e spazio ma al contempo subìvano una rata di mazzate da olio santo, come si potrebbe mal tradurre dalla Marilenghe. Colgo fior da fiore, ripescando indietro nei miei quarantatré anni di vita calcistica: l’ultimo O’ Rey Pelé; Robertino Rivelino, inventore dell’elastico; Téo Cubillas, profeta peruano con la colpa di non esser nato all’ombra del Corcovado. E i più recenti, col trio maravilla che ha illuminato gli anni ottanta italiani: le roi, Michel Platini, il passero di Jœuf; il grandissimo Diego, basta il suo nome di battesimo. Del terzo parleremo più tardi.

Roberto Baggio è stato il diez italiano che incarna il sogno bambino di cui sopra. L’ultimo: forse  il bravo e sano Del Piero vi si avvicina, un po’ troppo “concreto”, un po’ meno poesia.

E qui, ad Udine? Geni. Onesti pedatòri. Aspettative deluse. Ovviamente se si parla di Lui, dell’inimitabile camiseta dez giunta dal Brasile trentadue anni or sono, il resto scompare. Troppo, decisamente troppo: un genio in campo, un signore fuori, uno di noi senza se e senza ma.

Prima e dopo buoni giocatori, di talento più o meno cristallino, alcuni dei quali ricordiamo bene.

Ad iniziare dal bravo Dino d’Alessi, mezzala d’altri tempi, che militò in bianco e nero lasciando la squadra proprio in concomitanza dell’avvento di Rinus Giacomini. Trentacinque anni, all’epoca, pesavano eccome. Di lui mi ricordo la calma, il piede educato ed una carriera che lo portò anche al Milan per alcune amichevoli estive, ma nulla più.

Un altro di cui mi è grato parlare è un mito assoluto: Vendrame Ezio, cjasarsèis classe quarantasette, poeta maledetto della beat generation italiana. Come lui da noi nessun altro, nel mondo lo paragonarono (non a torto) a George Best. Da Udine fu spedito subito dopo la trafila delle giovanili, a vent’anni, per girare l’Italia senza i successi (sul campo) che il suo talento avrebbe meritato. Tipico esempio di piede aiutato da un carattere accondiscendente; smise di giocare nel suo paese, con lo Juniors, dopo avere strappato dalle mani dell’arbitro i cartellini e averli gettati oltre la recinzione, dicendogli che lì doveva stare, fuori dal campo a guardarlo giocare. Me lo vedo ancor oggi distintamente giocare a San Michele Extra contro i bianconeri imbattibili, serie C anno 1977; di fronte a Leonarduzzi si esibì (Udinese in netto vantaggio) nel suo pezzo forte, salendo sul pallone coi due piedi e scrutando l’orizzonte. Allibito il buon Leonida non capì lì per lì, ci pensò Zé Pasquale Fanesi a metterlo in posizione distesa con un intervento dei suoi. In quindici anni di carriera mille aneddoti, narrati nei suoi libri, e (per la mia generazione) la delusione di non averlo visto arrivare lassù, osteggiato nell’occasione decisiva, all’ombra del Vesuvio da un mister, di cui abbiamo parlato e per il quale (lo sapete) non nutro stima alcuna.

In tempi più recenti, onesti calciatori dalla carriera (precedente e successiva) più o meno luminosa: Angelo Orazi, scuola Roma e piedi buoni ma senza i necessari picchi di genio; Claudio Bencina, triestino ordinato ed educato; Gigi del Neri di cui conosciamo meglio le prestazioni da allenatore che quelle da player (ma fu il regista della promozione in A nel 1979), ed assieme a lui il carnico Sergio Vriz; Beppe Dossena, correttissimo ex-granata che a Udine si rilanciò; Beppe Catalano, che arrivò maturo dal Messina nell’anno della promozione in A alla guida di Sonetti, ma mai ben ambientatosi sotto il Ciscjel; e Criscimanni, Fiore, Pizzi, Martino Jørgensen... E Ricardo Gallego Redondo, prestigioso ex-Reàl che arrivò a svernare nel 1989, comportandosi da ragioniere e non mai da geniale trascinatore.

Vorrei però elencare (spero non sia stucchevole esercizio!) in particolare cinque giocatori, che a me stanno a cuore e che incarnano l’ondivaga ed incerta vita del diez, con pregi e difetti di cui parlavamo più sopra.

Herbert Neumann: il primo straniero dell’epoca udinese moderna. Un dieci di buona visione, ma di talento tutto sommato non eccezionale. Si presentò da capitano uscente del Colonia e in compagnia di una memorabile moglie, lasciò dopo un anno e ricordi affettivamente importanti ma tecnicamente modesti.

Daniele Pasa: Zico lo prese sotto l’ala come suo “erede”, e col Galinho inanellò prestazioni sontuose. Non ce la fece, però, a svoltare: la sua carriera fu lunghissima ma priva di picchi significativi. Peccato.

Ivica Surjak: un grandissimo, capitano dei plavi yugoslavi in una squadra tecnicamente perfetta ma tatticamente indisciplinata, fu ceduto solo per far posto ad un Re. Abilità al tiro (contro la traversa... ribassata), visione stereoscopica e velocità di pensiero (inusuale per un lungagnone come lui) in un campionato come quello di oggi farebbe ancora la differenza.

Francesco dell’Anno: il più grande numero dieci italiano della storia recente dell’Udinese. Giunto in Friuli dopo un pellegrinaggio nelle serie inferiori (ultima formazione l’Arezzo), si riscoprì il talentuoso Genio delle giovanili laziali. Incarnò la mia visione del “diez”, in cui si fondono piede buono, testa altissima, personalità, nessuna paura e carisma. Fu ceduto all’Inter per una petroliera di miliardi di lire, salvo far loro capire in breve che da almeno un anno giocava con infiltrazioni continue alla schiena, aggiungendo alle doti della mezzala perfetta anche la stoica resistenza al dolore. Rappresenta la chiave di volta della gestione-Pozzo, da lì in poi la famiglia capì come poteva funzionare il gioco.

Per ultimo, non l’ultimo, il signor Di Natale Antonio, classe ’77 e di professione campione. Non è esattamente il mio numero dieci ideale, avendo la rete come chiodo fisso, ma l’amore per le giocate spettacolari ne fa un degno portatore sanissimo di tal numero sulla maglia. Ha dedicato una vita intera alla cammisa biacca e carbone, la chiusura di questo pezzo deve andare a lui, attendendomi io, egoisticamente, che il prossimo anno rappresenti ancora un nome importante nella classifica marcatori del campionato.

Vi chiederete il senso del titolo: semplice. Oggi ciò val meno: tranne Messi e forse CR7 tutti i giocatori sono inglobati nello spesso indigesto slaim che rappresenta la famigerata densità a centrocampo, ma “ai miei tempi” (ormai appaio pronto ad assistere critico i lavori nei cantieri...) il dieci era isolato, solo, si doveva caricare sulle spalle un lavoro oscuro eseguito dai mediani, e trasformare palle velenose in assist al bacio per la punta realizzante. Blandizie per un numero sei che avesse mai sbagliato una palla, ma quanti fischi al dieci reo di un  errato appoggio definitivo.

Oneri ed onori, gloria e buchi neri, ma un sogno lungo una vita racchiuso in quel piccolo spazio fra i numeri uno e zero.

"Franco Canciani @MondoUdinese

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