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Bryant, dall’infanzia in Italia alla fine di una leggenda

Con Bryant muore un patrimonio di tutti. Un simbolo planetario. Un’icona globale. Un Jordan, un Messi, un Bolt. Un personaggio amato ovunque, non solo sotto canestro. In Italia addirittura in modo totale. Perché Kobe, si sa, nel nostro Paese è...

Redazione

«Continua così, a rendere il gioco sempre più grande. Il massimo rispetto per mio fratello LeBron»: come suonano strane adesso queste parole. Quasi premonitrici. Sembrano quelle di un testamento sportivo. Kobe Bryant le ha scritte sabato sera su Twitter, pochi secondi dopo aver visto il tiro con il quale LeBron James, indossando la stessa maglia dei Los Angeles Lakers con cui è diventato leggenda, lo aveva sorpassato al terzo posto della classifica marcatori della storia Nba. Un tiro realizzato proprio a Philadelphia, città natale di Kobe. «Mamba out»: così mister Bryant, facendo eco al suo soprannome, chiuse il discorso di commiato dal pubblico dello Staples Center, casa gialloviola, il 13 aprile 2016 in occasione dell’ultima partita di una travolgente, ventennale carriera. Mamba out, sì. Però, adesso, non dai parquet. Ma dai misteriosi campi della vita. A 41 anni.

Che carattere

Con Bryant muore un patrimonio di tutti. Un simbolo planetario. Un’icona globale. Un Jordan, un Messi, un Bolt. Un personaggio amato ovunque, non solo sotto canestro. In Italia addirittura in modo totale. Perché Kobe, si sa, nel nostro Paese è cresciuto. Dai 6 ai 13 anni: da Reggio Emilia a Rieti, da Pistoia a Reggio Calabria, a seguito della famiglia e di papà Joe, che col pallone a spicchi tra le mani gli segnò la via. Quando tornò negli Stati Uniti il suo inglese era zoppicante. Il suo italiano invece, ancora oggi, era pressoché perfetto. Il liceo in Pennsylvania, tra continui rulli di tamburi. Poi lo sbarco immediato in Nba, dove avrebbe vinto cinque titoli senza passare dall’università. Al draft 1996 fu tredicesima scelta degli Charlotte Hornets, subito girata ai Lakers. Dai quali non si sarebbe mai separato. Guardia di 1.98, aveva tutto per elettrizzare: personalità, doti di leadership, rapidità, elevazione, tiro, difesa, propensione ad assumersi le scelte e le decisioni più delicate nei momenti clou. Oltre a una determinazione che a volte rischiava di sfociare in arroganza.

La carriera

Kobe, alla prima stagione tra i pro, vince la gara delle schiacciate dell’All Star Game, dove poi sarebbe stato presenza fissa per diciotto volte. Da lì l’escalation, a suon di cascate di punti, è stata continua. Dal 2000 al 2002 la conquista di tre anelli consecutivi. Al fianco di Shaquille O’Neal, con quel guru di Phil Jackson quale allenatore e la figura del proprietario Jerry Buss sempre sullo sfondo. Poi un periodo più difficile, coinciso con un’accusa di molestie sessuali poi ritirata e, dopo la finale persa del 2004, la cessione di Shaq a Miami. Ma Kobe, dei Lakers, della franchigia che fu di Jerry West, di Kareem Abdul Jabbar e di Magic Johnson, sarebbe diventato sempre più bandiera. Due volte miglior marcatore della stagione, con tanto – nel 2006 – di una partita contro Toronto da 81 punti. Solo Wilt Chamberlain, 100 nel 1962, ad oggi ha fatto meglio e di più. Il ritorno in finale nel 2008, con una nuova sconfitta. Quindi altri due anelli consecutivi, mvp della finale in entrambe le occasioni. A Los Angeles era di nuovo showtime. Prima e dopo anche due ori olimpici, a Pechino 2008 e a Londra 2012. Dal 2013, complici gli infortuni, il lento declino. Fino, appunto, al ritiro della primavera 2016, a quasi 38 anni, annunciato mesi prima con una lettera-poesia intitolata “Dear Basketball”, “Cara pallacanestro”, che in queste tristi ore, testimonianza di un amore incondizionato per il suo sport, verrà ricordata in ogni angolo del mondo. Fenomeno fino in fondo, anche grazie alla cura maniacale del proprio corpo sotto la supervisione del fido preparatore atletico Gary Vitti. Quante lacrime, quell’ultima notte contro Utah, conclusa con un ennesimo exploit da 60 punti per portare il totale carriera a 33.643. Erano lacrime di commozione. Adesso sono di disperazione.

Tratto dalla Gazzetta dello Sport

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