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Abel Balbo: “Ho un’azienda agricola, sogno di insegnare calcio”

Nell'intervista a "Il Posticipo" l'ex Udinese parla della sua nuova vita

Redazione

Nell'intervista a "Il Posticipo" l'ex Udinese parla della sua nuova vita:

Abel, che cosa sta facendo oggi nella sua vita?

Da quando ho smesso di giocare ho fatto un po’ di tutto sia dentro che fuori dal calcio. Ho allenato e ho venduto qualche giocatore. Poi mi sono dedicato alle mie cose personali: ho un’azienda agricola in Argentina, produciamo cereali, soia, mais. Io e mia moglie l’abbiamo comprata coi primi soldi all’inizio della nostra carriera: veniamo entrambi da una zona agricola quindi l’idea è nata così. Dopo aver smesso ho dedicato tempo ai miei figli. Negli ultimi 3-4 anni sono stato quasi sempre negli Stati Uniti perché due di loro vivevano lì e ho approfittato di quel periodo per insegnare ai ragazzi nelle scuole calcio.

Lei è cresciuto in un paesino argentino: come è stata la sua infanzia?

Molto bella e sana. Io provengo da una famiglia umile: mio padre era un operaio e lavorava in una fabbrica metallurgica. Non mi è mai mancato niente. Sono cresciuto insieme a un gruppo di ragazzi in cui io ero sempre il più piccolino: mi hanno aiutato a crescere e non mi hanno portato sulla brutta strada. All’epoca era tutto più sano di adesso. Andavo a scuola e giocavo a pallone nel campetto della chiesa con gli amici. Un signore del paesino aveva fondato una squadra. Facevamo tornei alla domenica: iniziavo a giocare al mattino e finivo la sera.

Quando ha deciso di fare il calciatore? Chi erano i suoi miti?

Sognavo di fare il calciatore da sempre. Il mio primo mito è stato Mario Kempes, poi Diego Armando Maradona appena è apparso nel grande calcio. Loro due sono stati i miei due riferimenti più importanti. Ho avuto la fortuna di giocare due Mondiali insieme a Diego, all’inizio non pensavo che ci sarei riuscito. Ho segnato un gol su un suo assist nello spareggio Mondiale nel ’93 in Australia nelle qualificazioni per Usa ’94.

Come è stato il suo arrivo in Italia?

All’inizio è stato difficile. L’anno prima di andare all’Udinese avevo fatto le visite mediche col Verona e avevo firmato un contratto con loro, ma c’era la regola dei tre stranieri e sono andato in prestito al River Plate. Quando sono tornato il Verona non mi ha voluto e sono passato all’Udinese. Da un lato ero molto felice perché ero arrivato al top: il campionato italiano era quello più prestigioso del mondo negli Anni ’90, ci arrivavano in pochissimi, ogni squadra non poteva avere più di tre stranieri. Giocare in Serie A in quel periodo era una conferma del mio valore: andare a giocare in Italia era il massimo a cui un calciatore poteva aspirare. Dall’altro lato però erano tempi diversi da oggi: non conoscevo niente dell’Italia, ero arrivato giovane in un campionato molto competitivo e non ero preparato al 100% per quel tipo di calcio. Ci giocavano i calciatori migliori del mondo e quindi ho avuto un po’ di difficoltà a inserirmi.

Andare a Udine però le ha dato una mano…

Sì, ho avuto la fortuna di andare in una città molto tranquilla come Udine: io e mia moglie siamo arrivati da soli, ci eravamo appena sposati, lei aveva appena 18 anni. Questa esperienza ci ha aiutato a crescere come persone e come famiglia. Ho vissuto un po’ di tutto, anche un po’ di paura: era difficile, non c’era il telefono a casa, ogni tanto potevi andare a chiamare da un telefono pubblico con una scheda. Eravamo in un mondo sconosciuto per noi.

Come vede l’Udinese di oggi?

La famiglia Pozzo ha fatto un gran bel lavoro in tutti questi anni. Quando sono arrivato io, l’Udinese una squadra piccola, che provava a salvarsi ogni anno, una volta ci riusciva ma quella dopo no. Coi Pozzo l’Udinese è diventata una potenza del calcio, un po’ di stagioni fa ha giocato per qualificarsi alla Champions League. La società ha messo in piedi lo stadio nuovo e ha costruito infrastrutture solide tra le prime al mondo, ed è riuscita a restare sempre in Serie A costruendo squadre spesso competitive.

Lei ha ancora un sogno nel mondo del calcio?

Mi piacerebbe insegnare calcio: ho scoperto che mi piace più di qualsiasi altra cosa. Vorrei tornare sul campo e fare l’aiutante di qualche allenatore. Mi piacerebbe farlo in Italia, sarebbe la soluzione migliore perché vivo qui. Parto ogni tanto per l’Argentina per seguire alcune cose personali, ma ci vado un paio di volte all’anno, al massimo tre, sempre di meno perché i miei figli sono cresciuti e la vita è cambiata. Vivo in Italia da trent’anni, ho vissuto più qui che in Argentina, i miei figli sono nati qui e sono cresciuti qui, loro sono pienamente italiani. Viviamo qui da una vita ormai. Uno dei miei figli fa il pilota d’aereo, l’altro fa il designer industriale e nessuno dei due segue le partite in televisione, una beffa… Mia figlia fa la pattinatrice sul ghiaccio: nemmeno lei ha a che fare col calcio.

 

FONTE Ilposticipo.it

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