rubriche editoriali 2

La difficile vita d’un podosfonauta in bianco e nero

Mala tempora currunt. Cicerone, vecchio onesto, la sapeva lunga, aggiungendovi anche sed peiora parantur. Come a dire che al peggio non vi è limite. Un sommessissimo fuori programma. Il padre di uno di quegli amici di data vecchissima, con cui ci...

Franco Canciani

Mala tempora currunt. Cicerone, vecchio onesto, la sapeva lunga, aggiungendovi anche sed peiora parantur. Come a dire che al peggio non vi è limite.

Un sommessissimo fuori programma. Il padre di uno di quegli amici di data vecchissima, con cui ci conoscemmo bambini per ritrovarci adulti senza volerlo, ha deciso che questo mondo gli andava stretto. Ci ha salutati, ancora giovane, lasciando nella sua famiglia quel vuoto che credo di capire bene. non ci frequentiamo poi così tanto, io e GP, ma ciò non significa che non gli sia vicino in questo momento, che non lo abbracci fraternamente. E ancor di più lo farò quando elaborerà il lutto, sentendo quel freddo dentro. Ed al Signor Ernesto dico ciao, ché tanto ci vediamo fra un po’ di tempo.

Calcio.

Il momento non è catartico, divertente, entusiasmante all’ombra del vecchio arco di cemento armato, testimone silente di mille battaglie calcistiche ma non necessariamente. Soprattutto non siamo divertenti noi, che (pena la gogna mediatica da parte di certi mezzi di comunicazione audiovisuale comprensibilmente schierati) dobbiamo giudicare come confortanti progressi micrometrici un gioco che cresce azzimato come pane ebraico.

E siamo noiosi, ripetitivi, quella e sempre quella cercando spunti di commento e motivi di discussione, costruttiva e mai sterile (almeno nelle intenzioni), polemica ma mai maleducata. Perché mi è stato detto che dovremmo essere fonte di informazione: sarà. Ma io a scrivere che Badu si è soffiato il naso o Evangelista ha ricevuto scarpe di colore diverso mi trovo a malpartito. Come mai? In fondo sono un anarchico podosfonauta a caccia di emozioni, guido l’astronave che da bambino spesso non era altro che una scatola di cartone riccamente ma infantilmente decorata con i personaggi a noi così grati, Actarus Ryu (delle caverne) Hiroshi, del carattere dei quali non vi è traccia fra i modesti pedatori in bianconero.

Entro nel mio scatolone, ormai troppo stretto, e guardo sotto intorno sopra di me. L’Udinese? Attirandomi le ire non certo funeste di parte della tifoseria e di quelli che il calcio lo conoscono meglio di me (quasi tutti), ormai mi son fatto persuaso sia questa roba qui. Un passo avanti, due o tre indietro; una figura più o meno onesta contro un Sassuolo desolante a seguire le vacanze romane in cui indecentemente si sono limitati ad osservare i giallorossi giochicchiare, pietendone parziale misericordia (ottenuta). Dicendosi che in fondo se non si fossero presi due goal in nove minuti, se avessero segnato prima, se avessero fermato Manolas sul 3-0... Dimentichi forse che il primo tempo sarebbe potuto finire con una carneficina bianca e nera.

Ricordo anni depressi, in terza serie, dove un pareggio contro il Casale (Junior, all’epoca) era quasi miracoloso. Trent’anni dopo l’Udinese apparteneva alla nobiltà del calcio, mentre i nerostellati venivano cancellati dal calcio professionistico con un colpo di penna (oggi, rinati nel 2013, giocano in eccellenza piemontese). Ci sono voluti lustri e lustri, gioco, vittorie, trasferte e canti, maglie a strisce, col rigone centrale, con la banda diagonale e ancora a strisce, giocatori italiani e stranieri, sale sulle porte e Pellegrini III che ci manda in B, sale sulle porte e Gerolin che ci tiene in A. Decadi, decenni, vent’anni e forse trenta per conquistare un’amalgama società-squadra-sostenitori ché Massimino l’avrebbe subito acquistato per il caro Di Marzio mister rossazzurro.

E poi?

Si comprano una squadra in Spagna. Poi una in Inghilterra. Continuano a vendere i gioielli scovandone sempre meno, riprendono il totem Guidolin e al quarto anno lo costringono ad andare al patibolo, iniziando una deriva che ha portato alla squadra tecnicamente, tatticamente e agonisticamente più scadente degli ultimi vent’anni.

Ma non bastasse questo, si è deciso di rinunciare a prescindere al rapporto col pubblico. Dar via Pinzi, prendere Iturra ed Insua solo perché né Flores né Sandoval se li filavano; bello lo stadio ma sempre più seggiolini colorati spuntano fra spettatore e spettatore; fino a stamani allenamenti al buio per paura di svelare quelle trovate tattiche che alla domenica si trasformano in sbadigli, lunghi ed intensi.

Asseverazione del fatto che l’audience live, ed uso a bella posta due termini da persone informate dei fatti, era meno importante di quella legata ai milioni di euro versati dalle ricche televisioni a pagamento nelle capienti tasche dei proprietari dei club.

E dall’astronave questo mi addolora. La lista delle priorità scritta su una delle alette di questo scatolone che mi porta lontano, nel tempo più che nello spazio, che iniziava col sorriso del divertimento e finiva con la vittoria, passando per i cori, la batteria d’auto collegata ad una tromba politonale che suonava la cucaracha ed oggi tolgono anche i tappi dalle bottigliette d’acqua dei bambini, mortificata dalla modernità di una scheda prepagata d’oggi.

Oggi: mugugni, e l’accusa di troppo sazi a coloro che non si allineano. O peggio: ci sono tifosi che mi scrivono (in privato, ed in questo riconosco una certa dose di coraggio) di come io mi debba vergognare per l’incapacità di soffrire qualche anno in segno riconoscente del passato; di quanta voglia avrebbero di indirizzare alla direzione di questo giornale apposita proscrizione per costringerli a cacciarmi via.

Lo facciano.

Ma io continuerò a scrivere quel che penso. Qui o altrove. E se domenica giocheranno al calcio costringendo il Napoli in un cantuccio, sarò il primo a dir loro bravi. Ma se continueranno a costringermi a ciclostilare opinioni, sensazioni, depressioni non mi sottrarrò: la lama della mia katana è all’uopo oliata ed affilata.

Ebbene sì: sono un misantropo. Mi tengo sulle mie, e pur rispettando tutti non ho il dovere di pensare due volte prima di dire la mia. Un vantaggio incredibile: posso essere d’accordo, e poi su opposte barricate, e di nuovo d’accordo con chiunque, senza dovermi fermare un attimo dicendomi “ma se gli dico così, poi non è che tizio se la prende con me?”. Detesto i presuntuosi perché mi ritengo umile, e considero questo l’unico modo di relazionarsi ad un mondo più grande di noi. Non provo piacere nel contrappormi a chi non la pensa come me, ma da persona timidissima sono spavaldissimo quando devo difendere, a katana tratta, la mia idea o quella di qualsiasi appartenente alla mia cerchia professionale.

Questo, per me, è un quotidiano di opinione: niente amorazzi, niente timidezze. Se dico che un giocatore ha disputato una pessima gara, lo faccio sapendo che il giorno successivo questi potrebbe chiedermene conto: e senza arrossire gli domanderei, come avrei fatto con qualcuno dopo la gara di Roma, se non si sia neanche minimamente vergognàto.

Valigia pronta, me ne vado a Londra. Ci sentiamo dopo la gara contro i partenopei di Sarri, l’allenatore fra quelli di massima serie che più m’assomiglia per carattere. Ed ai tanti che non sentiranno nei prossimi giorni la mia mancanza, dico che il calcio è bello per questo, no? Evitando, come l’autore (o autrice) di tale frase, l’ironico sorrisino. Che non mi si confà. Perché non ci trovo proprio nulla da ridere.

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