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Guidolin: Se mi chiamassero i Pozzo tornerei anche adesso

"Mi ha contattato una persona della società, un amico tra l'altro, ma non uno di loro. Se mi avesse chiamato uno di loro sarei venuto a parlare, e la cosa vale ancora adesso"

Redazione

Francesco Guidolin i Friulani nel cuore e il Friuli ha nel cuore lui tanto che nel recente sondaggio proposto da MondoUdinese è stato eletto come preferito alla successione di Tudor prima che il club puntasse ad interim su Luca Gotti. "Vale per me, che ho un po’ il carattere friulano, ma anche per la mia famiglia, mia moglie e i miei figli. In Friuli ci siamo trovati benissimo e Udine rievoca solamente ricordi belli", ha raccontato a Telefriuli. "La fine del rapporto era già da inizio dell’ultima annata che esprimevo l’idea di voler interrompere l’attività da allenatore, perché stanco. Siccome la proprietà all’epoca gestiva 3 squadre  avevo domandato che mi venisse ritagliato un ruolo da osservatore/consulente per le tre realtà, in modo da poter viaggiare tra questi 3 mondi, contribuendo con i miei consigli e la mia esperienza. Sembrava essere una soluzione, invece alla fine non se ne è fatto nulla. Ma siccome la condivisione con la famiglia Pozzo è stata magnifica, se vi fosse stato da dover riannodare un filo, mi sarei aspettato un contatto diretto da parte di Gianpaolo o di Gino Pozzo. Così però non è stato. Mi ha contattato una persona della società, un amico tra l'altro, ma non uno di loro. Se mi avesse chiamato uno di loro sarei venuto a parlare, e la cosa vale ancora adesso"

L'Udinese di oggi non se la sente di giudicarla: “Non conosco la ricetta e non mi esprimo in tal senso, anche per rispetto nei confronti dei colleghi che stanno lavorando ed operando al fine di portare a compimento i progetti della società. Però bisogna pensare che l’Udinese tra le squadre medio-piccole è quella che ha fatto meglio di tutte, per risultati oltre che per i 25 anni di permanenza in Serie A. La gente di Udine non è abituata a vivere tanti anni di questo tipo, perché è stata abituata bene, però non sono in grado di dire cosa sia mancato o cosa manchi ora”.

Poi il ritorno e l'Udinese spettacolo: "Mi rendevo conto di avere tra le mani una squadra forte, perché avevamo lavorato bene nel pre-campionato, c’era sintonia, c’era unione, e nonostante la gioventù di ragazzi che si affacciavano per la prima volta alla Serie A, intuivo ci fossero qualità importanti. Per questo ho resistito ai risultati negativi iniziali con le quattro sconfitte.  Poi non so ad esempio cosa sarebbe successo col Cesena se...Il destino però ha voluto che ci fosse la zampata di Benatia, e da lì è cominciata la cavalcata. L’Udinese del 2010 è stata la squadra più forte che ho allenato. Se avessimo potuto mantenere quel organico, l’anno successivo avremmo potuto lottare per vincere il campionato. L’anno successivo forse è stato il vero miracolo. Perché con le partenze di giocatori importanti come Sanchez ed Inler abbiamo perso un po’ di qualità, ma nonostante questo abbiamo cominciato a correre sin dalla prima partita con il Lecce e siamo arrivati terzi. Quello è stato il vero capolavoro. Uno dei ricordi più belli che conservo delle esperienze di Udine è legato al poter vivere con la certezza che i tifosi ci avrebbero atteso all’aeroporto al rientro dalle nostre clamorose vittorie in trasferta".

Proprio i tifosi e il rapporto è qualcosa di indissolubile: "in buona parte perché mi considerano uno di loro, racchiudendo nella mia personalità alcune caratteristiche del carattere dei friulani. Sono riservato, piuttosto schivo e credo che questo in 5 anni lo abbiano capito.”

Poi i ricordi sui preliminari Champions:  “L'Arsenal? Non la conoscevo neanche io, perché ho fatto giocare ragazzi come Neuton che erano appena arrivati. Per avere la possibilità di superare il turno dovevamo fare un gol a Londra, o magari segnare il rigore di Totò Di Natale nella gara di ritorno; a quel punto sarebbe stata dura anche per l’Arsenal di Wenger. Il  Braga?  “Non doveva tirarlo Maicosuel. Avevo preparato la lista con i ragazzi, e il prescelto era Danilo. Doveva calcarlo uno che ci aveva portato fino lì, uno che aveva fatto la storia di quella squadra, non un ragazzo giovane, appena arrivato, che doveva ancora capire cos’è Udine e cosa significasse quel rigore”.

I segreti di quella Udinese sono  molto però: “Con tanti giocatori stranieri, di giovane età, provenienti da molto lontano, sentivo la necessità di creare calore intorno a loro. Allora avevo cominciato a chiamarne due alla volta a casa mia per fargli trascorrere una serata in casa, con il calore della famiglia. Sono venuti un po’ tutti nel corso delle settimane, e ritengo che questa fosse un’iniziativa che favorisse la conoscenza fra noi.  Penso che creare calore intorno alla squadra, comunione ed empatia con la città sia stata la cosa più importante che ho fatto.  Di Natale è stato un leader tecnico, e rifermento importante per tutta la squadra; assieme a lui Domizzi, Pinzi, Handanovic, Inler, hanno contribuito a trasferire sul campo ciò che io comunicavo in spogliatoio. Ma le mie fortune partono dall’aver potuto lavorare con un giocatore che ti permetteva di partire spesso dall’1 a 0, perché faceva sempre gol. Parlava lo stesso linguaggio calcistico dei grandissimi. Ho avuto la fortuna di incrociare questo calciatore che ha fatto cose straordinarie per la squadra bianconera".

Infine un saluto al Pordenone:  “Quella di Attilio con il Pordenone è una bellissima storia, che riempie di soddisfazione, anche perché sorprendente e inattesa, ma fino a un certo punto, in quanto non si tratta di una partita vinta, ma di un bel pezzo di campionato durante il quale il Pordenone ha conseguito numerose vittorie".

 

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