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Sei cavalieri che fecero le imprese

Non è mai bello, fare classifiche di merito non è mai nobile. E non ne farò nemmeno io. Dire, però, quali cavalieri della panchina mi rimangono più impressi, è cosa buona e giusta. Perché sì, adesso a comandare le operazioni bianconere...

Monica Valendino

Non è mai bello, fare classifiche di merito non è mai nobile. E non ne farò nemmeno io. Dire, però, quali cavalieri della panchina mi rimangono più impressi, è cosa buona e giusta.

Perché sì, adesso a comandare le operazioni bianconere c’è Stramaccioni Andrea da Roma, ma prima di lui molti altri. Alcuni fra questi hanno lasciato traccia non indelebile, altri addirittura dannosa. Sei, fra loro, però me li ricordo meglio degli altri.

Uno fra loro, il primo della mia personalissima lista, ci fa riandare nella notte dei tempi bianconeri, nelle maglie e nei colori delle poche pellicole rimaste: Giuseppe Bigogno.  Anni cinquanta, ruggenti ed eroici, esattamente stagione 1954-55. Dopo una tranquilla salvezza ed un girone d’andata medio, la squadra guidata dal varesotto in panca, in campo dal bomber Bettini, da Raggio di Luna Selmosson, in porta da Gianni Romano. Leggendaria la partita contro il “Gre-No-Li”-Milan, vinta 3-2 giocando per mezz’ora in dieci quando il suddetto portiere basilianese si infortunava. Mio nonno, altre persone me ne hanno raccontato ogni minuto, facendomi sempre sorgere la domanda su quante di quelle cose fossero inventate di sana pianta. Quella formazione meravigliò l’Italia, per spettacolarità ed efficacia, e solo un classico mezzuccio all’italiana, un presunto tentativo di combine consumatasi (si dice) due anni prima a Busto Arsizio tolsero quella formazione, giunta seconda, dalla massima serie. Peppino Bigogno non raggiunse mai più quelle vette di gioco.

Il secondo è il mio allenatore. Il signor Giacomini Massimo, elegante citadìn udinese classe trentanove, bel giocatore ed ancora miglior trainer. Nel biennio 1977-1979 vestì, in Italia, il total-Ajax di bianco e di nero, calcio globale alla friulana, illuminandoci di passione nelle trasferte sui campi di tutta Italia: dalla polvere di Omegna e di Crema, al pantano di Casale, alle bolge di Reggio Calabria, di Bari, di Taranto. Serie C, serie B, serie A. Poi Jacum saluta e va ad allenare lo scudettato Milan, guidandolo al terzo posto invalidato dall’improvvida dazione di denaro che il presidente rossonero affidava ad Albertosi, ignorandone (?) l’utilizzo verso i famigerati Cruciani e Trinca. Lasciamo perdere, tristi ricordi mai sopìti. Nota a margine: nel 1978 Giacomini conquistò il tripletinho: campionato di C, Coppa Italia Semiprò, Torneo Anglo-Italiano...

Ed Enzo Ferrari? Un ragazzo, allenatore della formazione primavera, nel 1981 fu messo da Sanson e Dal Cin alla guida di un’Udinese derelitta e retrocedenda, al posto del bucaniere Giagnoni, dopo il girone d’andata. E il sandonatese, incaricato probabilmente di preparare la serie cadetta l’anno successivo, promuove in prima squadra tanti suoi figliuoli quali Zé Paolo Miano, il biondissimo Papais, Marco Billia, il rosso di Fagagna Cinello, ovviamente Manuelito Gerolin il cui piede magico dona la salvezza, a tre minuti dalla fine del campionato (non m’interessano le voci che parlano di Krol e delle sue gambe aperte). Enzo Ferrari fu poi il primo mister di Zico, in quell’anno 1983, magico e sfortunato, di cui ancor oggi si parla: l’ho detto, mi ripeto dicendo che sostituirlo con Vinicio fu un errore micidiale (assieme all’infortunio del Galinho).

Alberto Zaccheroni: un caro amico tifoso, vedendolo giungere in bianconero dopo il fallimento bolognese, vaticinò “il panettone? Questo non mangia neanche l’uva di ottobre”. Prima stagione di tranquilla salvezza raggiunta col 3-2 dell’Euganeo di Padova. Seconda annata dall’inizio non eccezionale, ma che trova una svolta decisiva, e lo sappiamo tutti, quando mon cher ami (ça va la dessus, Régis?) dopo pochi minuti di Juve-Udinese manda Bettin di Padova a remare; questi, ovviamente, lo caccia. Zac toglie il Loca(telli) e mette Gargo, gioca a tre dietro e segna tre volte. Il direttore di gara patavino ci prova, cerca di salvare i domestici concedendo due rigori inesistenti e Vieri e Zidane fan giustizia sbagliandoli. Settimana dopo si replica, a grande richiesta si espugna Parma col cammello Pierini che fa 2-0. Da lì alla fine una marcia trionfale, unico inciampo uno 0-4 a Genova (sponda Samp) ed apoteosi finale a Roma, 3-0 contro i piccoli giallorossi di Liddas ed Ezio Sella. L’anno successivo ancora meglio, terzo posto (che all’epoca non significava ancora Champions), un attacco atomico e una difesa mai rivista a quei livelli (CaloriPieriniBertotto). Zac lasciò i lidi friulani per raggiungere lo scudetto rossonero con crocodile Bierhoff e Tommasino Hèlveg, ma ai colori biacca e carbone, ancor oggi, rimane affezionatissimo.

Luciano Spalletti, invece, fu allenatore molto preparato ma decisamente meno legato, umanamente parlando, alla piazza. Nel primo mandato salva la squadra ma viene spedito; fu richiamato dopo un anno, ed ottenne due piazzamenti Uefa e la prima, storica qualificazione Champions, prima di andarsene nottetempo attirato dalle calde e suadenti sirene giallorosse. Tecnicamente quell’Udinese era eccezionale, completa e difficilmente superabile: ci fu una flessione a febbraio 2005, seguì ritiro e vittoria (con polemica) per 5-1 alla Favorita sui rosanero di Guidolin, pròdromo alla cavalcata conclusa 1-1 in casa contro il Milan, reduce dalla terribile notte di Istanbul contro il Liverpool, i sei minuti che cambiarono la loro storia.

E per ultimo, ma non ultimo per merito, Francesco Guidolin. Chiamato per sostituire Zaccheroni, continuò nel 1998 l’opera del predecessore alla ricerca del bel gioco. Alla fine dell’anno conquistò con i suoi l’ennesima qualificazione Uefa a spese della Juventus (allo spareggio), e solo un malinteso con la direzione gli costò la riconferma la stagione successiva.

Ma gli amori non finiscono, direbbe il geometra Galliani, e nel 2010 viene richiamato in luogo di Pasquale Marino iniziando con un filotto di sconfitte. Fu difeso, tutelato, incoraggiato e la sua squadra sbocciò perentoria, guidata da talenti assoluti come Alexis Sànchez e ovviamente Totò Di Natale, solida in un centrocampo di piedi, testa e agonismo. Le tre annate successive portano ancora qualificazioni europee, con il fil rouge di un’indigesta percezione dei preliminari agostani; l’ultima, la scorsa, a posteriori si sarebbe dovuta evitare; le due parti, la squadra ed il tecnico, non ne potevano più. I risultati non dànno ragione al mister di Castelfranco che a fine anno, salvezza abbastanza tranquilla in tasca, decide di accettare l’incarico offertogli, direttore del progetto tecnico: promoveatur ut amoveatur.

Sono certo, ne sono certo: tutti fra Voi, inclusa la Direzione che questo pezzo manda in onda (se vuole), avrà da obiettare su uno, più o tutti i  nomi che ho cercato di metter in fila, rovistando nella mia povera e devastata (dagli anni) memoria. Pazientate, amici miei, pazientate e usate, eventualmente, le mie parole per ricordarVi che la storia di questa formazione affonda le radici in giorni in cui si ascoltava Natalino Otto, la Discodance, i Righeira. C’era Udinese prima di oggi, ci sarà anche domani.

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