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Udinese, Depressione Caspica

Quasi per far i bagagli e tornare ai luoghi che mi sono natìi. Bello il Meridione d’Italia, ma il mio dienneà appartiene piuttosto alla Grande Isola Triangolare e qui fra Ionio ed Adriatico sento più forte la nostalgia. Dalla lontana ma...

Franco Canciani

Quasi per far i bagagli e tornare ai luoghi che mi sono natìi. Bello il Meridione d’Italia, ma il mio dienneà appartiene piuttosto alla Grande Isola Triangolare e qui fra Ionio ed Adriatico sento più forte la nostalgia.

Dalla lontana ma vicina Udine sento arrivare notizie sempre più depresse. Non bastasse il gioco sul cambio di nome, non fosse stato sufficiente aver poco splendidamente perso la soirée de début contro i rosanero della Trinàcria, all’ultimo respiro del lunghissimo mercato l’Udinesecalcioessepià ha comunicato di aver ceduto, a titolo definitivo, colui il quale, come e anche più di Antonio Di Natale, incarnava lo spirito di quel che resta del connùbio squadra-tifoseria.

Ho a lungo riflettuto se scriverci o meno sopra; altri e più preparati di me si sono espressi, anche su queste lunghezze d’onda, stigmatizzando ora la società, ora la mancanza di bandiere anche se la querelle sul nome li fa sorridere. Poi dal mio personalissimo podcast è uscita una canzone che avrà, ad occhio e croce, una ventina d’anni. La canta il Consorzio Suonatori Indipendenti, la interpreta Giovanni Lindo Ferretti, che conobbi nel 1995 e ne restai incantato. Un uomo fuori dal tempo, così come la sua voce lontana e spesso levantinamente monocorde, nel ripetere “no, non ora non qui... no, non ora non qui”. Il titolo del brano è parte di quello che inizia questo canto.

Non ho parole di fuoco; né di miele. Non per una dirigenza attenta zero al rapporto coi tifosi: a questo punto sono certo non interessi poi così tanto. Non per una tifoseria che continua a usare le reti sociali per esprimere, spesso a tinte censurabili, il proprio dissenso. Salvo poi accontentarsi delle rassicurazioni della società e di Colantuono, incontrato oggi in un turbinìo di striscioni e inni pro-Pinzi, una specie di ipse dixit versione digitale. Me ne sono stato ben lontano. Non fa per me.

A più riprese, nauseantemente ripetitivo, mi definisco un nostalgico podosfanarchico. C’è una frase idiomatica inglese, I don’t belong here che significa più o meno che non appartengo a questo “mondo”, inteso quello calcistico. E da anarchico del pallone mi sento di non accettare nulla di quel che succede.

Bello lo stadio. Le partite più indimenticabili però le ho viste giocare in strutture orrende, come il Palli di Casale, il Comunale-Dall’Ara di Bologna, un Friuli che cadeva a pezzi. Quindi? Quindi non basta una casetta fighissima per essere una squadra fortissimi. Si è scelta la non-aurea medietas in un posto all’ultima moda, non posso che accettarlo ma farne parte è ben altro.

Bella la coreografia. Bella la tifoseria. Commovente. Ma alla fine passerà il cambio di nome in commerciale (magari la società declinerà l’offerta dello sponsor franco-romeno, ciò verrà fatto passare come una conquista dei tifosi e non invece un’intelligente ritirata dei Pozzo); se ne andranno le bandiere, spariranno le foto-copertina sul libro dei volti, spesso messi da persone che l’anno scorso demolivano Pinzi per la manifesta inadeguatezza al calcio velocissimo di oggi, spesso sbandierata e sancìta da maree di cartellini gialli. Alla fine ci sarà sempre la classica dicotomìa “Pozzo-sì” o “Pozzo-no” che semplifica, anzi banalizza una variante immensa di sfumature, ove si può essere d’accordo con un gesto societario, o meno, senza per questo amare od odiare una dirigenza. A proposito:

Brava la dirigenza. 43,9 milioni (pare) l’attivo di bilancio dalla sola compravendita-calciatori di quest’anno. Società modello; progetto mirabile; vengono dai settemari per imitarne le gesta managerialmente ineccepibili. Tutto vero. Ma basta questo per parlare di una squadra di calcio, il cui principale scopo dovrebbe essere giocare, e bene, la palla di Hello Kitty che la lega obbliga ad usare? Dov’è che mi sono perso?

Probabilmente molti fra Voi, amici miei biacca e carbone che usate così ovviamente i mezzi informatici meglio di me, non ricordano la storia udinese prima, chessò, di Zac o Spalletti. Alcuni fra Voi mi sfottono ché, come ogni vecchio, la mia memoria remota funziona meglio di quella prossima, così come l’appagamento di quanto vidi e cui assistetti. A beneficio di chi non c’era, o di chi se l’è dimenticato, lasciatemi un cantoncino in cui, come Mourinho, cavo fuori il papelìto, il pizzìno, e snocciolo qualche nome. Appartenente all’epoca-Pozzo.

Andrea Manzo. Massimo Storgato. Dino Galparoli. Alessandro Calori. Valerio Bertotto. Paolo Poggi. Andrea Coda (che si è appena rotto un legamento: auguri campione!). Giampiero Pinzi.

Qualcuno ne avrò dimenticato, ma tutti coloro i quali ho elencato hanno amato, ma che dico!, AMANO l’Udinese da friulani, pur non essendolo. Ho tolto Felipe perché, come Rossitto, l’hanno ripreso.

Quando cedettero costoro, però, non udii la stessa levata di scudi. Forse perché, ed ipotizzo non sapendone granché, meno esposti nei rapporti con la tifoseria? A Galparoli, per convincerlo ad andarsene, concedettero quella che allora si chiamava lista gratuita: libero di scegliersi una squadra dove giocare. Storgato era quello, seduto sotto la tribuna, che chiedeva piangendo all’arbitro di fischiare la fine della gara-salvezza nel campionato con Vinicio. Mi direte che il numero di anni di militanza fa la differenza. Forse, ma se avessero ceduto un difensore romano trentacinquenne molti fra voi avrebbero anche sorriso soddisfatti.

Se mi fa piacere la partenza di Pinzi? No. Così come il fatto che gente come Vydra, Battocchio, Angella, addirittura Fabbrini sia stata spedita in giro per l’Europa quando avrebbe aumentato, e ne sono certissimo, il tasso qualitativo di questa squadra.

Ed è per questo, per il fatto che esiste oramai una differenza abissale fra la mia maniera di intendere il calcio, e quella di codesta essepià. La quale, per me, ha ragione poiché la gestione è sua. Debbo dire che sono coerenti ed onesti, nell’operare in maniera del tutto difforme da come un tifoso medio si attenderebbe. Evidentemente non temono di mostrarsi del tutto impermeabili ai rumori della piazza, peraltro decisamente soffusi. Traduco per i meno udenti: si fanno una carrettata di affari propri, e lo fanno dannatamente bene.

Chiedessero il mio parere? Gli direi che lo stadio “no, non ora non qui” se in cambio chiedono la mia seicento, i miei vent’anni, e la ragazza che tu sai. Datemi un campo in terra battuta, di quelli che ho visto a iosa qui in Puglia, ridatemi gli ettolitri di pioggia presa sentendo bestemmiare in venti dialetti diversi; riprendetevi i seggiolini multicolori e tecnologici, mi bastava il foratone su cui sedevo al Rigamonti di Brescia. Ma ridatemi i miei giocatori: friulani, italiani, africani, australoceanici ma i miei giocatori. Ed il mio calcio.

Continuerò, a commentare questa squadra, così come sono e mi mostro perché in altro modo non so fare. Una cosa non mi potranno toccare: la sensazione di parlare spesso di qualcosa d’altro dal calcio. Chiamatelo sghebauz e fatelo giocare da chi costa poco di cartellino, al Dacia Arena, quando la rete televisiva di prammatica ve lo chiede. Ma non chiamatelo calcio. (Getty Images)

Pinzi è calcio, Coda è calcio, Storgato Galpa Bertotto Poggi Calori erano calcio. Voi siete manager, di sghebauz. Non chiamatelo calcio: no, non ora, non qui.

Franco Canciani @MondoUdinese

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