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Il numero due, importanza dell’essenziale

Nessuna ambizione, nessun lustrino, solo basicità ed importanza tattica, spesso grande personalità. Nell’epoca uno-undici, il due era appannaggio del terzino destro, quello che generalmente non spingeva troppo e si occupava di frustrare le...

Franco Canciani

Nessuna ambizione, nessun lustrino, solo basicità ed importanza tattica, spesso grande personalità.

Nell’epoca uno-undici, il due era appannaggio del terzino destro, quello che generalmente non spingeva troppo e si occupava di frustrare le iniziative dell’ala sinistra avversaria. Ancora di là da venire il concetto di laterale universale, posizioni fisse da mantenere quale quella dell’allenatore: pochi se lo ricordano, ma il mister che fa il pendolo, in piedi, davanti alla panca; il concetto di area tecnica; i dialoghi téte-à-téte fra arbitro e trainer sono cose relativamente recenti. Negli anni settanta, e ottanta l’Agnolin di turno che beccava il Trap in ginocchio davanti alla panca, gli intimava “mister, seduto e cinture allacciate”.

Non riesco, purtroppo per me, ad affondare oltremodo nella memoria bianconera per cavarne fuori terzini destri di vaglia, se non in tempi relativamente recenti.

E mi giova ricordare Francone Bonora, vicecapitano della promozione in B e latore della fascia rossa in quella successiva, quando capitan Elio Gustinetti venne ceduto al Foggia. Inflessibile marcatore, buon piede in proposizione, incarnò la figura di giocatore eclettico che tanto piaceva al Rinus Michels friulano, Giacomini Massimo da Udin. Raramente cedette la tanto amata maglia numero due: praticamente mai in serie C (tanta fu la correttezza, evitando costosi cartellini gialli), talvolta in B a beneficio del Leòn Sgarbossa, reincarnazione luparense di Billy Bremner (onestamente con meno classe) di cui ricordo la punizione nel sette di Dino Zoff in un’amichevole pareggiata 4-4 nel 1979. Ricordo grato, anche perché con mio padre sedevo ai limiti della tribuna stampa, e quando entrò il quindici dei blu (juventini) Gianni Melidoni chiese agli ignari colleghi autoctoni chi fosse... Un noto solone friulano rispose “Morini”, io dissi a mio padre “ma cosa dicono? Quello è Ezio Gelain”... Melidoni mi sentì, si girò e mi chiese “ch’a detto, regazzì?”. Io mi ripetei, e lui ridendo disse “ma che ‘tte sei magnato, un almanacco der calcio?”. Vabbé, altri tempi, all’epoca i calciatori erano pochi e li conoscevo tutti.

Bonora lasciò l’Udinese dopo la promozione, lasciando il posto al rientrante Carletto Osti, uno che dopo due partite era già stato venduto alla Juventus per l’anno successivo (i Pozzo hanno inventato nulla, semmai perfezionato il metodo). Un anno disgraziato in cui il trevigiano non brillò, come tutta la squadra. E nel 1981 fu acquistato un vero signore, anzi un Signore. Arrivava dal Brescia, i baffoni mistificavano un volto ventiquattrenne, una classe ed un’umanità innata, un esempio quasi imbattuto di affezione alla causa biacca e carbone, colori con i quali disputò quasi trecento partite in dieci anni. Dino è Dino, lo sarà sempre, Dino è quello che incontriamo fuori da San Siro, assieme a Faustino Borin, ed alle nostre raccomandazioni risponde “vardé, sen qui per vincere”, detto-fatto. Dino è quello cui urliamo la frustrazione in un 2-6 casalingo contro l’Avellino nel primo anno di Pozzo, e che decide di mandarci a guardare altro con un gesto inequivocabile... salvo incrociarci fuori dallo stadio, avvicinarci e chiederci scusa, ché “ragazzi, capitemi, è un momento di *****”. Dino è Dino, lo sarà sempre.

Da lì in poi pochi pedatori di vaglia, incluso lo sciagurato Stefano (Pellegrini) cui Baggio ne fa quattro in un uggioso e novembrino pomeriggio del ’92. Quella maglia ce l’ho io, Pellegrini si rifiutò di indossarla ancora ed un pietoso magazziniere se ne liberò a mio vantaggio. Ricordo un mestierante come Oddi, un altro buon professionista un po’ impalpabile come Mauro Navas, autore di una rete a Crespo (Coppa Italia, Guardalben infortunato a cambi esauriti e il puntero in porta) e poche prestazioni significative, ovviamente l’amico Régis Génaux, troppo presto volato dai suoi pari ad insegnare calcio alle schiere dei cherubini. Un suo ingresso a gara iniziata con passaggio di petto a Turci su pressing di DelPiero, ne dimostra carattere (in effetti al Delle Alpi anche troppo...) e tecnica. Mai banale, mon frére Régis.

Ma siamo già alle maglie dai numeri fissi. Permettetemi di tralasciare onest’uomini come Wague e Neuton; altresì mi sento di sovvenirvi  finalmente tre calciatori che la maglia l’hanno portata con gran valore mostrando indubbie doti: Tommasino Helveg, arrivato sovrappeso fra mille dubbi e divenuto un pretoriano di Zac senza se e senza ma, campione d’Italia con il Milan assieme a Bierhoff ed al mister di Meldola; Per Krøldrup, uno dei grandi affari della società, bellissimo (stilisticamente parlando) difensore centrale che forse ha ottenuto dalla carriera meno di quanto meritava; Cristian Zapata, sei anni in bianconero, uno dei difensori più forti della sua generazione con l’unico inconveniente dell’incostanza che ne ha reso ad esempio un malsopportato nell’attuale militanza rossonera.

Il due, elogio dell’utilità e della sinuosa eleganza di un numero tutto curve.

"Franco Canciani@MondoUdinese.it

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