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Il numero uno, follìa e cromodiversità (F. Canciani)

Iniziammo dal diez, dal numero più rappresentativo, la carrellata a ritroso sui giocatori meno dimenticabili dell’empìreo bianco e nero. Ci razionalizziamo, ora, e partiamo da quello che era l’inizio. Era: prima della schizofrenica rincorsa...

Franco Canciani

Iniziammo dal diez, dal numero più rappresentativo, la carrellata a ritroso sui giocatori meno dimenticabili dell’empìreo bianco e nero. Ci razionalizziamo, ora, e partiamo da quello che era l’inizio. Era: prima della schizofrenica rincorsa ai 47 (morto che corre), 99 (gli anni di Bellugi) eccetera. Ricordo come ieri Ubaldo Fillol, schiavo dell’inflessibile ordine alfabetico della nazionale albiceleste, indossare la numero 5 (mentre l’uno era Ossy Ardiles): oggi avere in porta il numero uno sembra quasi un’impresa. Non tale, invece, guardarsi indietro e ricordare le eccellenze che hanno difeso da guardiani di porta le sorti di nazionali e squadre prestigiose di club.

Morgan, quando già cantante dei Bluvertigo, scrisse “giuravo che avrei fatto il portiere, era l’unico a differenziarsi”: eterocromìa, pazzia, eccentricità sono caratteristiche che accomunano gli estremi difensori, ad esempio, ai campioni di formula uno.

E ci tornano subito alla memoria Lev Yascin, invincibile ragno nero della formazione sovietica; Ricardo Zamora, iberico ed invincibile; e la scuola italiana, da Cudicini a Zoff, da Albertosi a Pagliuca, Buffon, e quanti ne dimentico.

Rifuggo dall’universalità dell’estrema posizione, torno alle cose bianche e nere, senza affondare troppo negli anni in cui (quasi) tutti noi eravamo ancor meno che un progetto futuribile. Lasciatemi solo ricordare Gianni Romano, portiere della prima Udinese-splendor che fece tremare il Gre-No-Li rossonero e conseguentemente la federazione calcistica nazionale. Basilianese DOC, scomparve troppo presto cinque anni fa. Ed in cielo para anche Nino Carmassi, che vidi giocare un’ultima volta nel 1978 in una gara contro le vecchie glorie viola guidate da Kurt Hamrin: si andò ai rigori e Nino ne parò tre.

In anni relativamente recenti, al nervianese Franco Paleari successe uno degli eroi, veri, dell’Ajax-Udinese di Giacomini: Carlo, Carletto, Charlie Della Corna, brianzolo, arrivò venticinquenne dal Varese e si guadagnò subito i galloni da titolare, relegando i vari Paleari, Modolo, Ventoruzzo (una presenza a Rimini nel 1979) e poi il leggendario Marco Marcatti al ruolo di riserva. Sfortuna volle che all’ultima in casa nel 1979, serie B, nella quale l’Udinese sfoggiava la livrea-Ajax (tunica omen) con rigone centrale, al 40’ del primo tempo usciva su un attaccante barese (credo Gaudino) e nello scontro si fratturava una gamba. Sanson si cautelò, l’anno successivo, acquisendo il vecchio Ernestone Galli, estremo del Real Vicenza dei miracoli, che giocò bene non guadagnandosi però la riconferma dopo la retrocessione (sanata dal ripescaggio).

E l’anno successivo Charlie si ripresentò in porta, prima che Ferrari portasse su un ragazzino dalla primavera, Fausto Borin. Lungagnone veneto, ebbe la massima espressione tecnica in una gara a Roma, nel 1982: un pari firmato Cattaneo e Nela, in cui il Fausto Nostro parò anche le mosche. E stessa cosa fece domenica successiva a San Siro contro il Milan, corsara l’Udinese di Causio.

Fausto incontrò nel 1983 una serie di problemi, fisici e caratteriali, che ne frenarono la crescita; a Udine era arrivato il marchigiano Brini, e presto scivolò indietro nelle gerarchie. Smise a Trieste, nel 1988, a neanche trent’anni.

Brini (che alla causa sacrificò lo zigomo in uno scontro terribile contro il destro di Mancini), Abate, Spuri...

E nel 1988 arrivò Garellik, Claudio Garella, torinese non certo aggraziato ma efficace come pochi. Giunse all’Udinese a causa di un golpe sportivo che lo vide soccombere di fronte al vendicativo Ottavio Bianchi, e fu portiere di una promozione e successivamente di una retrocessione culminata all’ultima giornata, dopo un 4-3 sull’Inter.

Salutato il simpatico portiere piemontese, l’Udinese si affidò a Graziano Battistini e al povero Giulio, Giuliano Giuliani. Battistini fu con l’Udinese fino ai primi trionfi di Zaccheroni, Giuliani invece salutò i bianconeri nel 1993. Tre anni più tardi, purtroppo, disse addio al mondo, rubato troppo presto (si dice) dalla malattia di quel secolo. Mai chiarite le meccaniche della morte, e oserei dire chissene.

E veniamo a tempi recenti. Menzionando appena il buon Caniato, che per me sarà sempre, assieme a Fernandez, all’epoca definito improvvidamente il nuovo Desailly, ma soprattutto al pessimo direttore di gara Messina, che spedì fuori Amoroso dopo mezz’ora di calcio champagne e tre minuti dopo una bellissima rete, il responsabile della sconfitta in una delle gare giocate meglio dall’Udinese di sempre. Dieci contro undici, persa solo negli ultimi due minuti con una bicicleta ed una punizione da trentacinque metri ad opera di Gabriel Batistuta.

Tralascio anche l’attuale estremo difensore della Roma: non discuto le ragioni per cui, dopo aver sostenuto (a fronte di alcuni fischi dopo un 1-1 contro l’Ascoli) “oggi ho capito che siamo da soli, e da soli ci salveremo”, una notte scopre di potersi svincolare ed andare a Siviglia. Non discuto nemmeno se la sentenza che gli dà torto sia corretta o meno; discuto solo la tardiva offerta di chiarimenti, che ormai nessuno gli chiede. Semplicemente ha fatto la sua vita, la sua bella carriera, complimenti ma per noi i portieri simbolo, anziché lui (il Superfly di Leverkusen), sono altri.

La professionalità, lucidità, solidità di Luigi Turci, colonna dell’Udinese di Zaccheroni che modificò geneticamente il DNA dell’Udine calcistica. E la sua generosità, cultura, umanità. Gigi è uomo di sport, ma anche una persona di famiglia che non si nega ad alcuno.

La tecnica e la freddezza di Samir Handanovic, oggi nell’occhio del ciclone nerazzurro ad opera di tifosi il cui motto, sul 98% degli acquisti, è “l’è minga da Inter”, non è da Inter. Iniziò male, un errore che poteva costare la qualificazione in Champions su un cross da metacampo scagliato da Serginho, poi un anno a Treviso a giocare poco, e da lì, dal rientro a Udine, un’escalation irrefrenabile che oggi mi fa ritenere lo sloveno uno dei top-5 europei (e conseguentemente del mondo). Oggi, a trentuno primavere compiute, meriterebbe finalmente la grande chance della squadra di prestigio (e l’Inter non lo è), spero la crisi economica degli ambrosiani lo aiuti.

La testa di Oreste Karnezis; tutto tranne che appariscente, il greco ha dato prova di qualità (ai più) insospettabili, salvando a più riprese la stagione bianca e nera. Una tra le poche note positive dell’annata scolorita della Strama-truppa, potrebbe essere una delle pedine che annualmente la società utilizza per finanziare il proprio mercato in ingresso. Credo uno fra lui e l’altro grande portiere, ultimo di questa lista raffazzonata ma sentita, rimarrà e l’altro sarà ceduto.

L’ultimo, cronologicamente ma non qualitativamente, si chiama Scuffet Simone ed è un giovanissimo enfant du pays. L’anno scorso fu lanciato emergente e per disperazione in un momento di impasse fra i pali, dimostrando semplicemente una cosa: di essere un campione.

Quest’anno ha giocato praticamente mai, secondo me, per un’incomprensione causata dal dissidio fra il desiderio dell’Udinese di cederlo ad una grande formazione (italiana o estera) e quello della famiglia di fargli terminare il ciclo di studi in casa. La mia opinione non la dico, ma di certo le decisioni vanno prese tenendo conto delle caratteristiche di carattere di entrambe le parti. Cosa che non è successa.

Simone è un crack, il più forte portiere italiano dopo Buffon (assieme forse al genoano Perin): domenica passata, lanciato in campo per l’infortunio di Karnezis, dopo pochi minuti ha salvato alla grande su Zaza mostrando doti indubbie di preparazione, freddezza, tecnica.

Non ho menzionato, per il mio personale desiderio di rimuoverle, le due sciagure balcaniche che (mi dicono) girano ancora a Udine e di cui ricordo una serie sofferente di barbarie calcistiche. Pazienza, non si può essere tutti campioni.

Numero uno: elogio della follìa, desiderio di cromodiversità. Certo: mi piaceva quel numero tutto verticale sulla maglia, nera o grigia, raramente gialla, dei portieri d’antàn. Ma anche oggi lanciarsi a testa bassa fra i piedi dell’attaccante che arrivano addosso a trenta chilometri all’ora è patrimonio di pochi insani e pazzi giocatori.

"Franco Canciani @Mondo Udinese

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