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Tre: numero perfetto, il mio numero

Detto, detto, ridetto: il tre è il numero che preferisco nella vecchia codifica uno-undici resa inutile dall’americanata dei novantanove e dei portieri col sedici. Non affondo nella memoria sideralmente lontana: quelle rimembranze che san di...

Franco Canciani

Detto, detto, ridetto: il tre è il numero che preferisco nella vecchia codifica uno-undici resa inutile dall’americanata dei novantanove e dei portieri col sedici.

Non affondo nella memoria sideralmente lontana: quelle rimembranze che san di bagigi e mandulis, di sigarette amare e (purtroppo) bestemmie forgiate nell’impura ghisa. Mi tengo prossimo, attorno alla fine degli anni settanta, quando sì Ulivieri bomber sceso di due categorie per issare l’Udinese con doppio salto grazie a valentissime reti; sì le bombe di Delneri, i baffi del Vriz e le sue esse di Raveo in campo, furibondo dieci e capitano del Novara che perdeva in C (1-2 in casa) contro gli invincibili bianchineri; sì Claudio Pellegrini terzo, bel centravanti della salita in B subito carpito dal Napoli; sì Charlie della Corna, Vagheggi e l’ischitano falso nueve Ciro  ‘a papà Bilardi. Per me però soprattutto il tre, la fissità di quella doppia C ritagliata al contrario su pelle bianca, cucita sulla maglia dalla parte della schiena potente e volitiva di un easy rider romagnolo di cui ho parlato, riparlato e straparlato. Si chiama Pasquale Fanesi, per noi Zé Pasquale.

Lo ammiravo, per l’indomito spirito che trascinava compagni ed avversari su quella fascia sinistra; ne pretesi la maglia, la ottenni zuppa d’acqua dal cielo, rovinata perché stinta nero su bianco, indossata quel giorno di maggio (ultima in casa del campionato di C, zero a niente contro l’Alessandria) da Soro per l’assenza del Fanesi, ma da quest’ultimo donatami. Ringrazio ancora Gianni e Milan per un regalo che accarezzo con nostalgia tuttora senza soluzione di continuità.

La maglia che individuava il terzino sinistro non ha avuto nel mio immaginario sì tanti grandi interpreti nel lungo percorso bianconero; a manciate, spizzichi, mozzichi e bocconi ricordo un centravanti ghanese di nome Asamoah e cognome Gyan, attaccante con un numero da difensore; Rafé Sergio, bel terzino anni novanta; un argentino triste e solitario, meteora zaccheroniana che pareva forse più buono di quanto poi non si mostrò, Pineda Mauricio da Baires; tacerò per decenza l’inutilità bianconera (a prescindere dal resto di carriere più o meno luminose) di gente come Nikola Vujadinovic, Tommasino Manfredini, il lungagnone Cribari che Spalletti impiegò appena qualche gara in più del proprio magazziniere, Damiano Zenoni già più presente e continuo nelle chiamate in causa.

Grato mi sia, però, rinverdire la memoria di quattro paladini che recaron tale numero con prode e valido impegno nella più o meno lunga militanza udinese.

Il più recente, oggi col sei, è Allan. Due campionati col mio numero sulle spalle, e solo i miopi non ne intuivano già doti e prospettiva; certe volte ci dimentichiamo che appena giungono su questo pianeta chiamato Udine, quasi catapultati da spiagge carioca, calcio ballato e prossimità familiale, sono quasi bambini. Oggi è divenuto uno dei centrocampisti più ambìti d’Italia, eicosamente moltiplicato essendone il valore.

Poco prima Mauricio Isla Isla. Laterale (ma non solo) buono come il pane, baciato sulla fronte da Eupalla stessa in divinità e destinato ai massimi palcoscenici; fu opzionato dalla Juventus con deciso e lauto anticipo sulla fine del campionato, che per il prode cileño coincise con un signore, tale Ambrosini, distintosi in carriera per mille gesti poco oxfordiani, che dopo aver contrastato il nostro causandogli involontariamentela distruzione di un ginocchio, ancora seduto su quest’ultimo inveiva, protestava, mescolando oxonianamente suini e divinità per scongiurare un cartellino che (giustamente) non sarebbe mai arrivato (non c’era fallo), dimentico dell’avversario piangente che gli faceva da seggiolina. Cartellino nero su questo gentiluomo bombetta e uose, per me che me la legai al dito. Isla non sarebbe mai più tornato lo stesso, mentalmente frenato, nei contrasti, dal timore di rifarsi male.

All’indietro correndo, un furlano di mezza pianura come chi vi scrive: Alessandro Orlando. Memorabile rete dalla bandierina piantata al corner sinistro del pauperillo Nello Cusin che indirizzò lo spareggio avverso al Brescia verso l’armata di Bigon; indossò a più riprese la casacca bianca e nera, figurando sempre decentemente bene. Bel sinistro, di quelli da metter in cornice e ammirare le sere d’inverno, armagnac Mozart e caminetto acceso. Cross al bacio per Oliverone nostro che li inzuccava inesorabilmente, ogni Kopfschlag una sentenza. Memorabile anche per il fatto di avere un palmares eccezionale (due scudetti, una Champions, due coppe Italia) avendo militato in formazioni come Juve, Milan, Samp dei tempi Mantovani (non i ciclisti che oggi possono salire a piedi sul Poggio per ringraziare la rinunzia genoana alle coppe europee) e giocato poco tendente al mai.

Ultimo, non per ultimo, Attilio Tesser.

Sànson (o Sansòn?) lo opzionò che il primo campionato di A (finito male poi bene mediante répechage) non era ancora finito, Attilio che giocava al Napoli con Livio Pin e Claudio Pellegrini terzo. Tesser nicchiò, nascondendo mai dietro a dichiarazioni farlocche (imparate, ragazzini di oggi) che in B non sarebbe sceso.

Giunse, finalmente, e legò il proprio nome al tre udinese per cinque stagioni, prima di scemare la carriera verso Perugia e Catania. Terzino bellissimo da vedere, tanto efficace quanto elegante, poca propensione alla realizzazione ma spinta incessante e (rispetto ad esempio a Orlando) una migliore capacità difensiva. Lo ricordo a difesa della propria porta, sì, ma anche dei propri compagni: non stazzava come una petroliera, Attilio, non era di certo un armaròn alla Cattaneo, ma quando Ubaldo Righetti, dopo pochi minuti di Udinese-Roma del 1984, entrava durissimo su Zico a centrocampo in barba alle disposizioni tattiche del Liddas ma applicando semplicemente il pratico e vile teorema Tardelli-Rivera, Tesser si avvicinava al lungagnone capitolino e con il gesto di pollici ed indici allargati lo invitava a starsene alla larga, pena la legge del taglione. Ché chi tocca il Galinho non può averla franca sino alla fine.

Una maglia. Un’altra maglia, tanti altri uomini prima ancora che giocatori. Il fatto che ci si ricordi di loro dopo trent’anni o più, il fatto che i milleuno giocatori d’oggi per molti dei quali l’Udinese è una porta girevole che ruota come un disco di settant’anni fa, testimonia proprio di questo fatto: erano, sono e saranno sempre eroicamente uomini ed umanissimi eroi.

"Franco Canciani @MondoUdinese

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