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Zenica, l’Ilva dei Balcani dove l’Udinese si impose

Zenica tra ieri e ogi, tra sogni di sport dove l'Udinese ha scritto una pagina di storia, e sogni di rilancio per una nazione che vuole l'Europa, ma che sembra ancora vittima di un passato che la stessa Europa sembra aver dimenticato.

Redazione

Un bel tris vincente. E’ quello che cala l’Udinese, subito convincente all’esordio stagionale ufficiale in  Europa League. Oggi sembrano passati chissà quanti anni, ma è solo il primo agosto 2013. Si gioca a Fenica, un viaggio in macchina di ore e ore, passando dai Balcani, dal turismo croato fino già alla Bosnia dove le lapidi della guerra sono ben visibili ai bordi delle strade come vecchi (o attuali) cartelli di fare attenzione ai campi minati. Strade tortuose, case ancora distrutte, qualche contadino che vende i suoi prodotti a bordo carreggiata.

L'Udinese nella gara d’andata del terzo turno preliminare, con la squadra di Francesco Guidolin che  ipoteca la qualificazione superando 3-1 i bosniaci del Siroki Brijeg.  Gara gia’ chiusa nel primo tempo: sblocca il solito Di Natale al 16′, poi tocca a Muriel, con un micidiale uno-due fra il 31′ e il 39′, mettere in cassaforte il passaggio del turno. Nella ripresa, al 32′, il gol della bandiera per il Siroki con Coric. Alla luce di tale risultato il ritorno giovedi’ prossimo al “Friuli” si preannuncia come una formalita’ o poco più.

Zenica oggi, l'ILVA dei Balcani come raccontato dal Corriere dello Sport.

Zenica vuol dire pupilla. E ha regalato al suo figlio più sensibile, Danis Tanovic, uno sguardo da Oscar, vinto con la sua opera prima. Le immagini di No man’s land, terra di nessuno, ancora oggi, dopo quasi 20 anni, ti lasciano steso, un po’ come Tzena, uno dei protagonisti, finito dentro una trincea contesa della guerra serbobosniaca, supino su una bomba antiuomo, impossibilitato a muoversi e a salvarsi, come in ogni conflitto, mentre intorno a lui si sussegue un balletto splendidamente grottesco. E in fondo lo sperdimento è l’eredita che accompagna questo territorio a noi praticamente sconosciuto, il cantone Zenica-Doboj, 70 chilometri, a nord ovest di Sarajevo, dove la Nazionale arriva oggi per affrontare domani la Bosnia Erzegovina di Dzeko&Pjanic.   Polvere e veleni. Niente Sarajevo, unico precedente, che chiuse la stagione azzurra di Sacchi, sconfitto, 23 anni fa, prima storica vittoria della neo nata nazionale locale. Tutti a Zenica invece, nel piccolo stadio dei miracoli, di cui diremo. Ma prima ci troveremo catapultati in un orizzonte di polvere e veleni. Zenica vuol dire pupilla ma quelle dei centomila cittadini di questa regione, attraversata controvoglia dal fiume Bosna, bruciano da anni per i fumi e le scorie dell’imponente acciaieria di proprietà adesso, dopo una crisi verticale, di ArcelorMittal. Benvenuti all’Ilva balcanica. E non è un bello stare.  

La storia di questo luogo industrializzato forzatamente da Tito, 70 anni fa, ampliando i vecchi insediamenti austroungarici (1892) poi privatizzato nel 1999, arrivato a contare 22mila addetti, ridotti ora a 2mila, suona sinistra, se messa di sfondo alle nostre cronache attuali. Fumi e nebbie inquinanti, disoccupazione, livelli tumorali diffusi ben oltre la norma, secondo inchieste giornalistiche internazionali (tra queste quella recente del Guardian). E in mezzo a tutto questo, ecco Raca, una discarica a cielo aperto incontrollata di 700 ettari, dove si perdono i disperati del ferro, emarginati che aspettano l’arrivo dei camion che scaricano gli scarti ferrosi da pulire per poi rivendere alla stessa fabbrica per una quindicina di centesimi a blocco.

Zenica tra ieri e ogi, tra sogni di sport dove l'Udinese ha scritto una pagina di storia, e sogni di rilancio per una nazione che vuole l'Europa, ma che sembra ancora vittima di un passato che la stessa Europa sembra aver dimenticato.

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