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Zoff intervistato da Veltroni: ‘Non avevo idoli o modelli’

Lunga intervista di Walter Veltroni a Dino Zoff sul Corriere dello Sport. Il campione del mondo friulano ha raccontato la sua storia, dai primi passi ad oggi. Per i tedeschi, oggi, la squadra più importante è la Nazionale. Per gli italiani credo...

Monica Valendino

Lunga intervista di Walter Veltroni a Dino Zoff sul Corriere dello Sport. Il campione del mondo friulano ha raccontato la sua storia, dai primi passi ad oggi.

Per i tedeschi, oggi, la squadra più importante è la Nazionale. Per gli italiani credo sia il club per il quale si tifa.  «Sì, lo temo anche io. Sa, ai miei tempi, i giocatori che arrivavano in azzurro erano i protagonisti assoluti dei propri club. Ora molti convocati passano gran parte del campionato in panchina e bene fanno i ct a denunciarlo. Appena diventai allenatore della Nazionale riunii i giocatori al centro del campo. Dopo i primi convenevoli feci loro una affermazione dura, forse inaspettata per chi mi conosce poco. Dissi loro “Voi, nelle vostre squadre, non contate un c... A parte Totti. L’unico modo di diventare primi nei vostri club è esplodere in Nazionale». Furono sorpresi ma capirono. Gli avevo parlato duro ma chiaro, come faceva con noi Enzo Bearzot».

 Come cominciò, nel suo paesino in Friuli?  «Mi scambiavano per lo scemo del villaggio. Non pensavo che al calcio. Da quando avevo cinque anni ho cominciato a giocare in porta. Non so perché volevo stare in quel ruolo. Non avevo idoli o modelli, la prima partita in tv l’ho vista di straforo nel 1954. I grandi mi facevano giocare con loro, sapevano che ero bravino. Ma ero molto timido e ogni tanto mi facevano un po’ di bullismo, per esempio mi tiravano sempre dal lato in cui c’era più fango. Perché c’era tanto fango, dove giocavamo noi».

Ci pensi bene, perché sentì di fare proprio il portiere?  «Me lo sono sempre chiesto. Ma in fondo è quello che più mi assomiglia, caratterialmente. Il portiere ha una immensa responsabilità, è l’unico che non può sbagliare. E però di quella responsabilità, se è bravo, conosce la gloria. E io sono cresciuto in una terra di tradizioni asburgiche. E tutti noi, nobili o contadini, eravamo educati alla precisione, alla serietà. I bambini avevano solo doveri. Ma assolti quelli potevamo giocare. I miei genitori erano severi, ma se io facevo il mio dovere potevo usufruire di grande libertà. Così passavo anche sette o otto ore a giocare al calcio in cortile. Quando sento oggi i genitori dire che portano il figlio a Trigoria o non so dove per giocare penso sempre che la migliore scuola calcio è la villa comunale o il cortile».

La sua prima maglietta? «Fu una canottiera sulla quale mia madre cucì un numero di stoffa. Lo ricordo ancora. Era un numero uno, rosso».

Torniamo ai suoi inizi. Esordisce nell’Udinese a 19 anni con un micidiale cinque a uno subito dalla Fiorentina. Avrebbe atterrato un bufalo. Era emozionato?  «Emozionato no. Posso aver paura, l’ho avuta fino alla finale dei mondiali. Ma quando stavo tra i pali sentivo soprattutto responsabilità, la parola chiave della mia vita».

Chi sono i migliori portieri di ieri, oggi e domani?  «Abbiamo avuto una scuola fantastica. Albertosi, Vieri, Castellini e il non sufficientemente ricordato Fabio Cudicini. Eravamo, per qualità e numero, i migliori del mondo. Oggi Buffon. Domani vedo Perin e Sportiello. Ma la scuola si è inaridita. I club continuano ad acquistare portieri stranieri... Sono arrivati persino tanti portieri brasiliani. Per usare un eufemismo potrei dire che erano bravissimi in tutto ma il Brasile non è mai stata la patria dei numero uno. Adesso dicono che è importante che un portiere sappia giocare con i piedi. Vero, certo. Ma se chi gioca in porta può farlo con le mani e gli altri con i piedi, una ragione ci sarà...».

Veniamo al 1982, il trionfo. Quando lei leva in alto quella Coppa e l’Italia esplode di gioia.  «Guardi non posso parlare di quel mondiale senza rendere, in primo luogo, omaggio a Bearzot. Era una persona coraggiosa, leale. Quando ti diceva una cosa era quella. E te la diceva in faccia, non passava attraverso i giornalisti. Non gli piaceva certa gente che ruotava, anche a livello dirigenziale, attorno alla Nazionale. Per due anni non portò mai la Nazionale a Coverciano. Era una persona limpida, se c’era una pallottola in giro lui metteva il suo corpo davanti, un vero comandante».

 Quel mondiale, per molti di noi, è anche la sua parata sulla riga all’ultimo minuto.  «In quell’istante mi è apparso di tutto. Ma la paura più grande era che l’arbitro vedesse male. La giudicasse dentro la porta. Per questo saltai in piedi urlando che era sulla riga. È stata la parata più importante della mia vita. Fu una gioia indescrivibile. Baciai persino Bearzot e tutti e due poi ce ne vergognammo. Alla premiazione ero in uno stato di gloria. Cercai persino di baciare la regina, cosa non proprio protocollare. In aereo con Pertini giocammo la famosa partita. Lo scopone è un grande parificatore sociale. Ricordo, con la Juve, che una volta il massaggiatore de Maria, che era un vero professionista, insultò sanguinosamente il Trap che aveva sbagliato a calare una carta. Pertini si infuriò perché perdemmo. Ma tempo dopo ricevetti un suo telegramma nel quale si incolpava della sconfitta. Ci aveva persino ripensato. Al Quirinale disse che voleva al fianco, a tavola, Bearzot, me e la squadra e che ministri e dirigenti potevano anche andare al ristorante».

 

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